Il vescovo: «il tempo del terremoto non è stato certo il più bello, forse neanche il più brutto. Di sicuro il più vero»

Al pellegrinaggio a piedi il vescovo di Rieti ha portato la speranza delle zone del sisma

(di Paolo Viana – «Avvenire») La mitezza e la solidarietà sono il viatico del pellegrino nelle terre colpite dal sisma. È il messaggio che, sabato notte, monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti, ha consegnato alla riflessione dei partecipanti al pellegrinaggio Macerata-Loreto, che quest’anno è stato idealmente dedicato al terremoto che ha devastato il Centro Italia e al dramma della Siria. Dal Paese mediorientale proveniva Asmae Dachan, la quale ha concluso la sua testimonianza con queste parole: «Nessuna notte dura per sempre e per quanto buia, dolorosa e angosciante, la notte lascia sempre lo spazio al giorno. Oggi come umanità stiamo vivendo una lunga notte, piena di incubi. Dobbiamo affrontarla e camminare verso la lu­ce, perché Dio è Nur, Luce».

Il presule invece, nel suo messaggio, ha puntualizzato che «il sisma non è una fatalità né una punizione» e si è soffermato sulle sue conseguenze profonde: «l’umiltà ci rende più vicini alla terra ferita, più capaci di ascoltarla e, forse, anche più capaci di inventare nuove forme di presenza per i nostri borghi», guardando al futuro di questa terra ferita. «Ci vuole una qualità che è la mitezza, oggi una merce rara, soppiantata dalla rabbia e dalla disperazione. La mitezza, di cui Gesù è il tipo più convincente, una forza distante sia dalla muscolare ingenuità di chi promette “tutto e subito”, salvo essere smentito dai ritardi e dalle lentezze burocratiche, sia dall’inerzia rassegnata di chi si volge altrove perché l’agenda setting delle notizie impone altre priorità. La mitezza evoca un coinvolgimento tenero e tenace, un abbraccio forte e discreto, un impegno a breve, medio e lungo periodo. Qui siamo chiamati in causa tutti: istituzioni e cittadini».

Quindi l’appello alla politica («ha l’ultima occasione per accorciare la distanza»), ma non solo ad essa. «Ciò che conta è riscoprire la solidarietà non come l’emozione di un momento, ma come un impegno anche strutturale che metta mano a quelle priorità che per troppo tempo sono state silenziate. Ci chiama in causa l’apporto, oltre che della politica, dei singoli cittadini. Di ciascuno perché la faglia emotiva che si è prodotta non produca persone isolate e, dunque, più facilmente manipolabili».

Una riflessione confermata dalla testimonianza di una donna terremotata, Fiorella di Tolentino: «niente è più come prima, ma una cosa bella è accaduta dopo il terremoto: un intensificarsi di relazioni, rapporti solidali», e che monsignor Pompili ha ricondotto alle parole di papa Francesco, che in visita ai terremotati ha indicato tre cose concrete da cui ripartire: il cuore, le mani, le ferite con le cicatrici.

«Il cuore prima della casa suggerisce che si tratta di mettere mano all’elaborazione del dolore e del disorientamento, senza fretta, esercitando una grande pazienza verso se stessi. Le mani dicono della necessità di procedere speditamente nel lavoro senza incertezze, inciuci, equivoci o collusioni. Occorre una gestione accorta per evitare infiltrazioni e speculazioni. È necessaria una serie di attenzioni che privilegiano la ripresa dell’economia per territori già segnati dallo spopolamento. Infine, le ferite e le cicatrici lasciano intendere che si può curare la ferita, ma resta una cicatrice che nessuno può togliere. Dobbiamo imparare a convivere con questo nuovo stato di cose», ha concluso. «Abbiamo costruito un mondo di sicurezze artefatte, ma la vita resta, per definizione, un rischio. E chi vuole imbellettarla fatica poi a viverla nel concreto. Siamo diventati più asciutti e più concreti. Questo tempo non è stato certo il più bello, forse neanche il più brutto. Di sicuro il più vero».