Verso una Chiesa sinodale, Perroni: «Il nostro sarà il primo passo, quello più difficile»

Tornata ad aiutare, stavolta in presenza dopo aver svolto un incontro col clero e un altro coi direttori degli uffici diocesani, la riflessione della Chiesa reatina, Marinella Perroni – che ha ricordato anche altri precedenti interventi, in anni passati, svolti a Rieti – si è detta lieta di «mettere il naso» nel concreto di una comunità ecclesiale, perché questo «per un teologo è ha sempre un valore in qualche modo “balsamico”: gli intellettuali hanno bisogno di vedere che la realtà è sempre più ricca e più positiva di quanto loro riescano a immaginare e soprattutto di quanto un’informazione ormai tossica» tende ormai a presentare come cronaca «che invece di un racconto di fatti altro non è che una litania di misfatti».

E non le manda certo a dire, la teologa invitata da monsignor Pompili a lanciare gli input per la riflessione di questa esperienza “sinodale” che anche la diocesi reatina vuol avviare.

Ne riportiamo qui solo qualche flash, giusto per dare una minima idea del ricchissimo e appassionato intervento che merita di essere riascoltato e riletto (video e testo sono riportati qui).

Il primo punto della sua riflessione: il “fantasma della pandemia”. Lo sconquassamento operato dal Coronavirus dice qualcosa di importante anche alla Chiesa, e non solo per le problematiche pratiche che ha prodotto. Ha rivelato un corpo malato: malato il pianeta, malata la società, malata la comunità ecclesiale, «come tutte le Chiese storiche che subiscono da tempo un’emorragia di fedeli»

«La pandemia ha colpito la nostra Chiesa cattolica con particolare virulenza, perché l’ha trovata già immunodepressa» a causa dei noti scandali finanziari e sessuali, ma soprattutto perché ha trovato, specie in Italia, una Chiesa «che aveva investito unicamente sulla pratica sacramentale, che poi si riduceva essenzialmente al culto domenicale. Ha messo a nudo la fragilità di un sistema, anche se in alcuni casi ha stimolato la creatività… Però la questione di fondo resta molto seria: senza forme di vita comunitaria, la prassi di fede rischia di servirsi di un formalismo elitario». Dalla teologa l’invito forte a ripartire dalla consapevolezza più volte detta ma non poi con troppa reale convinzione: quella per cui “tutto non ritorni come prima”. Ripartire da qui, suggerisce la Perroni, ma senza fretta: «Non aver fretta di riprendere da quel 22 febbraio 2020 in cui siamo entrati in un’angoscia. Ma verificare che tutto non può riprendere come prima: indietro non si torna». La prima riflessione da farsi è «su quali sono i prezzi che la Chiesa di Rieti ha pagato alla pandemia, su quanto non è più recuperabile…».

Da brava biblista, la relatrice riparte da quella tentazione “nostalgica” che già si legge nelle pagine dell’Antico Testamento, quando Dio proietta invece l’esperienza del popolo credente sempre verso un guardare avanti. Attenti, allora, a una certa “vecchitudine”: «Una società di vecchi, una Chiesa di vecchi, può essere generativa? Certo non è l’anagrafe che conta… La Bibbia è piena di uteri che rifioriscono nella vecchiaia… Ma o ci si rinnova o si condanna all’insignificanza». E secondo la professoressa quell’auspicio della Scrittura “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore!” «dovrebbe essere il grido di battaglia di ogni vescovo», quel sognare e profetizzare di vecchi e giovani di cui parla Gioele che dice la bellezza di un popolo animato dallo Spirito di Dio e sa desiderare novità, farsi provocare dalla profezia, dall’ansia di futuro.

Si parla dunque di sinodalità. Concetto di cui non si coglie a fondo quanto sia sconvolgente. Qui la Perroni lo dice forte e chiaro: «La nostra Chiesa cattolica non è una Chiesa sinodale, non per cattiveria, ma per storia. Non può esserlo. Ma ciò non significa che non possa diventarlo. Col tempo ha assunto una dimensione verticistica e centralizzata solo in parte mitigata dall’esercizio della collegialità episcopale. Parlare di Chiesa sinodale significa parlare dell’isola che non c’è», eppure «papa Francesco ha deciso di ripartire proprio da qui», avendo avuto dal Conclave che l’ha eletto un mandato preciso a rinnovare non solo e non principalmente apparati e strutture, ma lo spirito della comunità ecclesiale, riportandola allo stile, appunto, “sinodale” degli inizi. Sinodalità, spiega, «è un termine suggestivo, che affascina alcuni e spaventa altri: significa condivisione di una stessa strada, di uno stesso cammino. Una Chiesa clericale non è una Chiesa in cammino, è una Chiesa ferma. Una Chiesa sinodale è una Chiesa che si mette in cammino. Non si tratta di darsi da fare, di moltiplicare le riunioni Significa uscire dall’apatia e dall’indifferenza, dalla logica del “si è sempre fatto così”». Qui non è in gioco il pontificato di papa Francesco, «non si tratta di schierarsi pro o contro di lui», in gioco è invece «il futuro della nostra Chiesa». Il Pontefice, infatti, «sa molto bene che solo sulla sinodalità si gioca l’unica vera riforma sistemica che può cambiare volto alla Chiesa, perché tocca il ganglio vitale di qualsiasi istituzione: la gestione del potere. Richiede procedure di partecipazione, ha bisogno di organismi deliberativi e non solo consultivi».

Importante, però, «mettere in guardia da un uso improprio del termine “sinodale”»: esso richiama al valore della partecipazione e corresponsabilità di tutti i battezzati, ha tenuto a chiarire la teologa: sinodalità «sta nel fatto che tutti noi in virtù del battesimo siamo chiamati alla responsabilità ‘in solido’, senza paura di figurare in trasparenza ciò che i diversi compiti significano e comportano in una Chiesa che è tutta diaconale e tutta ministeriale». Dunque una partecipazione davvero ad ampio raggio, di tutti, con un senso di corresponsabilità che sia effettivamente tale.

Il tutto va declinato secondo le tre dimensioni, evangelizzazione, liturgia e carità, in cui si articola il dibattito che dovrà proseguire a livello parrocchiale e zonale, secondo quanto il materiale già disponibile sull’apposito sito propone. Qui va giocato un senso di partecipazione, di ministerialità, di coinvolgimento su cui tanto ci sarà da discutere, da approfondire, da interrogarsi. La Perroni butta lì quell’actuosa participatio che il Vaticano II utilizza come indicazione di base per restituire la liturgia al popolo di Dio: la sua provocazione è che sia un riferimento da utilizzare anche per l’evangelizzazione e la carità. E questo impone «una verifica ancora più radicale della propria identità sinodale»: infatti se in ambito liturgico alla fine ci si può accontentare di «una semplice, anche se più allargata, distribuzione dei ruoli», nell’ambito di evangelizzazione e carità invece «la questione della condivisione delle responsabilità e della gestione dell’autorità diventa cruciale: e qui dobbiamo avere l’umiltà di accettare che tutti abbiamo ancora molto da imparare».

Sono solo semi da gettare, dinamiche da avviare: «Non saremo noi, credo, la generazione che vivrà la vita ecclesiale in stile sinodale, c’è una cultura da creare, una progressività da accettare, sono previste sconfitte da sopportare». Ma servirà la pazienza di cominciare, altrimenti si rischia che a figli e nipoti «lasceremo una Chiesa ormai spenta, un sale senza sapore che serve solo ad essere calpestato». Il nostro sarà solo il primo passo, ma è quello più difficile da fare.