Maràna tha, Maran atha / 2

Lectio divina del vescovo con i giovani nel tempo di Avvento (Mt 3, 1-12)
02-12-2016

Premessa

Silenzio è sexy è il nome di una band pop-cantautoriale fiorentina. Il nome nasce dal fatto che uno dei suoi componenti, facendo il guardiano della basilica di santa Croce a Firenze, un giorno a dei turisti rumorosi ha intimato: «Silenzio», mentre un altro disse: «ss… sexy», riferito al Crocifisso di Cimabue. Da lì l’illuminazione. A pensarci il silenzio fa bene all’anima e significa una comunicazione profonda e intensa come nel linguaggio sessuale autentico.

Il silenzio è la nota dominante dell’Avvento e vuol dire stare fermo, rimanere immobile. C’è bisogno di fermarsi per stare in silenzio. E allora si incontra se stessi perché non si trasferisce all’esterno la propria inquietudine. Il silenzio dà voce alla nostra anima: ai suoi gemiti e ai suoi tormenti, ma anche ai suoi desideri e alle sue passioni.

Il silenzio è non il vuoto, ma la pienezza. E infatti la comunicazione al massimo livello si fa silenziosa. Ciò vale anche nel nostro rapporto con Dio. La festa di Natale è fatta di luce e di silenzio. Solo quando accade questo dentro di me la parola si posa e si rivela feconda. Non posso costringere Dio a venire in me, ma il silenzio è la condizione perché possa percepirne il fruscio sottile.

Testo e contesto

“Venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea”. I versetti iniziali del capitolo 3 di Matteo (1-2) si possono tranquillamente attribuire all’evangelista, come pure la menzione dei farisei e dei sadducei del v. 7 e l’insistenza sulla conversione nel v. 11. Per il resto, il brano che introduce la figura del Battista risulta un testo composito, nel quale i vv. 5-12 trasmettono il ricordo storico del battezzatore, così come i vv. 3-4 e il v. 11 appartengono allo stadio dell’elaborazione della chiesa primitiva.

Come si vede, dietro ad un testo si nasconde sempre un lavoro redazionale che, in questo caso, mira a presentare una figura-chiave che segna il passaggio dal Primo al Nuovo Testamento. Giovanni ebbe, in effetti, una vasta risonanza all’epoca dei primi cristiani al punto che esistevano ‘comunità battiste’, che si richiamavano all’austero battezzatore del Giordano e, addirittura, lo ritenevano il ‘Messia’. Ciò spiega il serrato confronto che si coglie nella pagina di Matteo dove Gesù e Giovanni sono posti l’uno di fronte all’altro, come la premessa e la conseguenza. Ciò che conta è capire in che senso il precursore introduca il vero Messia, di cui è allo stesso tempo il testimone coraggioso, ma anche la smentita più patetica.

Giovanni è detto ‘il Battista’ perché al di là dei suoi modi pittoreschi e disarmati di fare propone un bagno purificatore. Il giudaismo conosceva allora più di un rito di purificazione e di bagno sacro. I monaci di Qumran si purificavano ogni giorno.

Esisteva l’uso di battezzare i pagani convertiti alla fede nel Dio d’Israele. Quello di Giovanni assomiglia come battesimo a queste usanze, ma ha due caratteristiche proprie: è irripetibile e segnato da un’intonazione escatologica. Il suo battesimo si riferisce al giudice che separa la pula dal grano, il che equivale a riconoscere i propri peccati e non semplicemente una purificazione esteriore. Per di più Giovanni insiste sull’urgenza del tempo presente che annuncia il giudizio finale di Dio: «la scure è già posta per tagliare gli alberi alla radice», come dire o si cambia adesso o arriva la fine. Come l’albero che viene tagliato perché non porta frutto. In tal modo, Giovanni è netto nel denunciare un’appartenenza solo esterna che non giustifica. L’uomo sarà giudicato sulla base delle sue scelte e delle sue azioni, non della sua appartenenza o della sua pratica religiosa.

A differenza di Luca che presenta Giovanni come l’ultimo anello del Primo Testamento, Matteo tende a situarlo pienamente nell’area cristiana. Ancor prima del battezzatore e del giudice implacabile, egli annuncia il regno, invita alla conversione, e rinfaccia ai suoi contemporanei il rifiuto del Messia. Entra a pieno titolo nell’era messianica e costituisce il punto di aggancio con la promessa di Israele che si compie in Gesù. Per questo alla fine è lui stesso a riconoscere la supremazia del rabbi di Nazareth con quelle parole che fanno accapponare la pelle: “Colui che viene dopo di me è più forte di me. Io non sono degno nemmeno di portargli le scarpe”. I rapporti con Gesù sono così chiariti una volta per sempre. Non è possibile confondere lo schiavo con il suo padrone. Era lo schiavo infatti a levare le scarpe del padrone.

Meditazione

Vorrei cerchiare tra i versetti ora inquadrati, tre semplici parole su cui meditare in silenzio. La prima è la parola precursore, la seconda è metanoia, la terza è deserto.

Precursore

Precursore è parola tecnica per dire del suo rapporto con Cristo. Ma non basta ribadire la sua funzione di mezzo rispetto al fine. Più profondamente, Giovanni appare una figura patetica. Non si pensi alla banalità della sua fine tragica per accontentare le voglie della concubina di Erode, attraverso le sinuose forme della sua giovane ed avvenente figlia Erodiade. Trovo patetico Giovanni perché minaccia fiamme e fuoco nell’ingenua persuasione di spaventare e persuadere. I suoi toni sono aggressivi: «Razza di vipere!». E non risparmia avvertimenti oscuri. Giovanni è patetico perché annuncia un giudizio e intuisce che Gesù ne è il segno, ma non si avvede che per il Messia le cose stanno diversamente. Per Giovanni il giudizio viene fulminato dall’alto e sarà tremendo. Per Gesù il giudizio arriva, ma non viene da qualcuno che sta sopra di noi. È lo Spirito che giudica nel segreto della coscienza e punta non a distruggere ma a ricreare. Questo è il senso del «vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco»: il fuoco dell’amore brucia, ma rianima e non incenerisce. Giovanni dice cose di cui non afferra il senso. Si aspettava un Messia con il ventilabro e si troverà di fronte Gesù, il quale più che piegare le volontà, ama insinuarsi dentro il cuore delle persone e trasformarlo lentamente.

Nel confronto tra Giovanni e Gesù sta il punto di svolta nella storia della religione. È come se due principi si incontrassero nella figura del Battista e nella persona di Gesù. Con Giovanni dopo secoli di discorsi dotti su Dio torna a farsi sentire una visione interiore e un’intuizione religiosa. Ma c’è più nulla nel messaggio di Gesù di Nazareth di quanto esprimeva minaccia, incuteva timore e invocava il giudizio di un tribunale. Per aiutare gli uomini non è determinante muovere loro dei rimproveri nel nome della morale e delle sue leggi. La questione non è che essi manchino di buona volontà e che quindi sia sufficiente sottoporli a prescrizioni perché capiscano che è il momento è giunto. Gli uomini sono disorientati, vulnerabili, feriti. Questo è ciò che Gesù deve aver visto, sentendosi sempre maggiormente attratto dalle persone che più di tutte soffrivano e dedicandosi ad esse per capire sempre il mondo con gli occhi di coloro che piangono. Il Maestro vuol guarire gli uomini e renderli, anzitutto, capaci di quella bontà che è sopita in loro e che essi vorrebbero vivere. Giovanni resta un eroe senza macchia. Che paga fino in fondo la sua lealtà. Ma gli sfugge lo sguardo da vicino e carico della misericordia di Gesù che capovolge le situazioni più disperate.

Metanoia

Conversione è l’appello del Battista, ma sbaglierebbe chi la intendesse solo come un processo di revisione dei comportamenti esteriori. Per convertirsi non bisogna partire da ciò che sta all’esterno, ma da ciò che sta all’interno. Ciò che conta è l’interiorità. Del resto la parola metanoia è formata dal sostantivo nous, che vuol dire mente. La conversione dovrebbe riguardare, anzitutto, il modo di pensare per arrivare a non pensare come si pensava prima. Se quelli che stavano con Giovanni avevano creduto che per accogliere il Messia bastava essere “figli di Abramo”, ora devono capire che non basta più questa semplice appartenenza socio-culturale. Bisogna lasciarsi provocare dal linguaggio paradossale e trasgressivo del profeta. Anche noi dobbiamo rimuovere vecchie mentalità che portiamo avanti in automatico, senza mai metterle in discussione. Magari per inerzia, per codardia, per superficialità. Che idea, per esempio, ci siamo fatti di Dio? Possiamo dire che corrisponda al pensiero di Gesù, oppure potrebbe risultare perfino pericolosa? La storia dimostra che in nome di Dio si è arrivati perfino a torturare, a fare guerre, a seminare morte. È importante che la conversione riguardi, in primo luogo, la nostra immagine e il nostro sentimento su Dio. Secondo un maestro zen: «Se incontri il Budda, uccidilo». Voleva dire, se pensi di essere arrivato alla piena comprensione di Budda, distruggi questa comprensione perché non è quella vera. E la grande tradizione cristiana del medio Evo afferma. «Se trovi Dio, lascialo perché non è quello vero». Solo Dio secondo le parole di Gesù è affidabile: misericordioso, vicino ai poveri, incline al perdono. Accanto a questa, vanno cancellate altre idee bislacche. Puoi crederti superiore agli altri, si salva solo chi è astuto, l’immagine è ciò che conta e non quello che sei. Tutte queste idee vanno rovesciate e ci vuole il fuoco del vangelo per demolire e ricostruire la nostra immaginazione.

Deserto

Che cosa rappresenta il deserto? Si tratta del luogo dell’incontro con Dio e la cosa spiazza un po’ perché penseremmo al giardino e non al deserto. Il deserto è il luogo della spogliazione, della mancanza e quindi della necessità. Tutto viene a mancare: i beni, gli onori, le amicizie. Si è così ricondotti all’essenziale della creatura. Con una mano davanti e una di dietro. Nel deserto vengono a cessare anche i ruoli. Noi ci si identifica con il ‘che fai?’ perché la posizione sociale conta. Nel deserto tutto questo non ha più senso. Chi sono? Uno che ha fame, ha sete, patisce la morsa della necessità, prega e invoca. Il deserto è tutto questo, ma anche altro. Proprio perché tutto si resetta è anche il luogo di una nuova creazione, di un nuovo sviluppo. Mi vien da pensare che il deserto prodotto dal terremoto è certamente una prova dolorosa, ma può essere anche un nuovo inizio. Non è senza significato che Isaia che si legge come prima pagina della liturgia di questa domenica seconda di Avvento evochi un mondo alla rovescia: il lupo abita con l’agnello, il leone mangia l’erba con il bue, il bambino può mettere la mano nel covo dei serpenti. Dal caos che segue all’armonia delle origini si ritorna al cosmo. Per questo Giovanni ha il presentimento che il deserto prepara l’avvento di Dio: “il regno dei cieli è vicino”, afferma con convinzione. Ritrovarsi nel deserto è dura, ma può essere un’occasione preziosa per eliminare tutto ciò che appartiene all’ordine del superfluo, dell’effimero, dell’inessenziale. Ci sono troppe cose che ingombrano la nostra vita, che la appesantiscono, troppe parole che la rendono confusa e vuota. Siamo spesso sequestrati da ciò che non conta e che ci ruba i sentimenti migliori. Se facessimo un po’ di deserto riusciremmo a percepire la parola giusta, quella che apre alla speranza. E se chiudessimo gli occhi a tante immagini abbaglianti riusciremmo a scoprire chi siamo. Torneremmo a rivedere le stelle.

Per chiudere pensando a santa Barbara

In molte regioni vi è l’usanza, legata alla festa di santa Barbara, di tagliare rami di ciliegio e di metterli in acqua a casa. Fioriranno per Natale. È un’usanza che proviene dal mondo pagano. Se nel mezzo dell’oscurità e del freddo dell’inverno, dei rami secchi ricevono acqua, fioriscono ed offrono un segno di vita, proprio al solstizio d’inverno, il 25 dicembre. Spesso dobbiamo riconoscere che il nostro cuore è freddo. I rametti di santa Barbara sono il segno di una speranza che fiorisce nel cuore dell’inverno. Barbara significa ‘selvaggia’, straniera e balbuziente. Perché si ritrova fuori contesto e mostra di avere un altro sguardo sulla realtà. Come è noto Barbara era figlia di un ricco greco. Il padre le diede un’educazione corrispondente al suo ideale educativo. La chiuse in una torre perché non fosse toccata da altri pensieri. Eppure Barbara, pur lasciandosi rinchiudere nella torre, non si fece rinchiudere nell’angusto mondo del papà. Si confrontò con le persone più colte del suo tempo, si aprì alla fede cristiana e si fece battezzare. Fu torturata e perfino violentata col fuoco, ma resistette sempre, fino alla fatale decapitazione. I rametti di santa Barbara sono il segno che anche nel cuore dell’inverno si pongono le basi per la fioritura inaspettata del Natale. Perché non provare a mettere rami di ciliegio in acqua nella propria casa?

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