Come gli uccelli del cielo

«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?» (Mt 6,26-27).

Ogni volta che a mio padre capita di ascoltare simili parole, puntualmente sbotta dicendo: «Sfido io che gli uccelli hanno da mangiare! Si mangiano quello che semino io». Nella reazione istintiva del contadino si riflette la mentalità dell’uomo che fa da sé. L’esatto contrario di quello che Gesù lascia intendere.

Mai come ai tempi della pandemia siamo stati ricondotti all’essenziale: la vita è un dono fragile e nessuno può disporne. L’esito di questa consapevolezza è vivere senza ansia perché la garanzia della vita non sta nella nostra disponibilità. L’uomo, infatti, vive anzitutto di ciò che riceve, a cominciare dalla vita. Non è l’accumulo che ci preserva, ma la serenità di vivere giorno per giorno. Concentrarsi sul possesso è miope perché vale di più condividere con gli altri. Anche perché non serve a nulla vivere nell’oro se intorno a noi è il deserto. È illusorio pensare di star bene in un mondo malato (!).

Che significa, dunque, essere capaci di osservare gli uccelli del cielo? Vuol dire assumere un atteggiamento contemplativo che è il dono inatteso che abbiamo ricevuto dal tempo “sospeso” del coronavirus. Papa Francesco aveva affermato nella Laudato si’ che una nuova ecologia umana ha bisogno di contemplazione e non solo di tecnologia. Solo a condizione di essere capaci di fermarci a guardare e ascoltare, o meglio a contemplare, possiamo riconoscere le contraddizioni alle quali ci troviamo esposti, al di là delle nostre sempre più potenti capacità di fare e di agire. Certo, cinque anni fa l’Enciclica non aveva previsto il coronavirus, ma già invitava a non mettere la testa sotto la sabbia e far finta di non vedere quello che non va. Papa Francesco ha dato voce però non alla paura, ma alla speranza che consiste nel «riconoscere che c’è sempre una via di uscita, che possiamo sempre cambiare rotta, che possiamo sempre fare qualcosa per risolvere i problemi» (LS, 61).

Dopo il lockdown siamo pronti a non lasciarci risucchiare dalla routine, ma a prendere coscienza che qualcosa è definitivamente cambiato e costringe anche noi a rivedere prassi, abitudini, tic mentali? Sono almeno tre le cose che non saranno più come prima.

La prima è la fine dell’individualismo becero. Nessuno può immaginarsi a partire soltanto dal proprio “io, qui e ora”. Lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle a partire dalla connessione che si è manifestata tra noi e gli altri nel momento in cui abbiamo realizzato che nessuno se la cava da sé. E, per contro, che ciascuno dipende nel bene e nel male dall’altro.

La seconda è un diverso rapporto con il tempo e con lo spazio. Grazie ai nuovi linguaggi digitali il mondo è diventato improvvisamente più breve e più stretto e ci ha indotto a cambiare sguardo sulla realtà. Pensate a quanto meno abbiamo inquinato evitando i nostri spostamenti inutili, più vicini all’agitarsi inoperoso che a un agire costruttivo.

La terza cosa è aver individuato i problemi e le relazioni vere. Abbiamo avuto la possibilità di chiarire il falso dal vero problema, concentrandoci sull’essenziale: salute, affetti, fede, sorvolando su questioni effimere e secondarie. Non dobbiamo disperdere nel giro di poco tempo quel prezioso senso di solidarietà e di comunità che abbiamo visto essere la fonte della resilienza.

A livello locale, a partire dal 2015 abbiamo cercato di sbozzare una Chiesa adatta ai tempi e partecipe del contesto immediato come è stato dal 2016 con il terremoto e all’inizio del 2020 con la pandemia. Volendo ritrovare il “filo rosso” del nostro pensare e del nostro agire, non è difficile ispirarsi alla sequenza dell’Incontro pastorale.

Ricordate? Nel 2016 ci ritrovammo a Contigliano. Il tema era: “Camminare, costruire, confessare”, facendo il verso alle prime parole del neoeletto papa Francesco (14 marzo 2013). Dopo le 3,36 del 24 agosto ridefinimmo il tema così: “Accompagnare, ri-costruire, imparare a credere”.

Nel 2017, la questione da affrontare è stata: “In cammino col passo dei giovani”, dove si connetteva quest’età alle altre, in virtù della dinamica delle generazioni. Per rigenerare bisogna sempre ripartire dalle generazioni, cioè in concreto dalle persone e dalla qualità delle relazioni.

Nel 2018, l’oggetto dello sguardo comunitario è stata: “La dimensione sociale del Vangelo”, considerato che avevamo ormai da tempo sperimentata la Chiesa come “ospedale da campo”, che cura le ferite della società e trova così la strada per decentrarsi.

Infine, nel 2019, ci siamo fermati a contemplare: “La domenica, andando alla Messa” non tanto per constatare l’esodo dalle chiese vuote, ma per riprendere in mano i fondamentali su cui costruire una comunità cristiana.

E ora, dopo la pandemia che ci ha resi orfani delle certezze di sempre, giocate sul contatto e sulla relazione, che fare? Non c’è da spaventarsi né da rincorrere chissà quale prodigioso ritrovato pastorale. Si tratta di far tesoro di questi mesi difficili, cercando di dare continuità a quelle forme di prossimità che abbiamo sperimentato. Tre strade si aprono davanti a noi. A dire il vero, si sarebbero aperte, magari con più tempo, anche senza il coronavirus.

La prima è quella di re-immaginare l’evangelizzazione, oltre l’iniziazione cristiana e la catechesi degli adulti. Dobbiamo abbandonare i nostri obiettivi di proselitismo e andare in cerca di quelli che “vogliono vedere Gesù” (cfr. Gv 12, 21), anche se non si imbattono nei nostri percorsi ecclesiali. Abbiamo sperimentato che la gente cerca Dio anche fuori di noi. Non perdiamo l’occasione di cercare Dio anche noi fuori dalla porta della chiesa. E naturalmente nell’ascolto delle domande, delle ansie e delle attese delle persone che incontriamo.

La seconda è re-interpretare la liturgia. La liturgia eucaristica è il linguaggio più elementare e più potente, che tuttavia esige una serie di “condizioni”: il contatto, il riconoscimento e la gratuità. Ognuna di queste caratteristiche della liturgia è messa a dura prova dalle condizioni di “confinamento”. Se dobbiamo sospendere il contatto (con la distanza), se dobbiamo ostacolare il riconoscimento (con la mascherina) e se alteriamo la gratuità (con le prenotazioni e l’ingresso regolamentato) dobbiamo capire che perdiamo i linguaggi più potenti che rendono “assemblea” un gruppo di persone. Il nostro “distanziamento” oggi è imposto dalla legge, per il bene comune. Ma talvolta lo abbiamo praticato da soli, quando vivevamo “a distanza” anche senza motivo, per abitudine o per freddezza. Forse quando torneremo a celebrare senza protezione, saremo capaci di diventare “comunità sacerdotale” (LG 11).

La terza via è re-inventare la carità, facendo più attenzione alla giustizia dei legami sociali, alla rettitudine dei processi economici, alla responsabilità nei confronti dell’ambiente comune. Ciò richiede di non limitarsi a “fare la carità”, come pure è stato fatto dopo il terremoto e dopo la pandemia con investimenti importanti sulle persone da sostenere, sulle imprese da accompagnare e sui beni culturali da recuperare. È chiesto di condividere una lettura ragionata della realtà (come ad esempio nel recente Rapporto RiData 2019) per farsi compagni di viaggio di quanti intendono affrontare sul serio i nodi irrisolti del nostro territorio. E, finalmente, dedicare energie e risorse alla questione educativa che investe la scuola, sia quella statale che quella non statale.

Il coronavirus ha fatto saltare la routine e ci costringerà a cambiare, invece del “si è sempre fatto così”. Così la fede smette di essere un’abitudine e diventa una scelta.

Rieti
31-05-2020