L’atto di fede

Lettera pastorale del vescovo Domenico

1. Premessa

Il terremoto ci riguarda tutti

Il terremoto non è più una notizia che riguarda altri. Dopo il 24 agosto e il 30 ottobre è una realtà tatuata sulla nostra pelle, memorizzata dalle nostre fibre. Tutti noi abbiamo nelle orecchie, negli occhi e nelle gambe il rombo sinistro di una potenza che smuove e sconvolge.

Attimi interminabili di terrore che intorpidiscono i sonni inquieti e che rendono sensibili anche al minimo fruscio, possibile avvertimento della fine. Si è accorciato il nostro sguardo.

Viviamo alla giornata, come i malati terminali. Ci ritroviamo così inebetiti, silenti, chiusi in noi stessi. Pudichi rispetto alla paura, specie quando abbiamo a che fare con i bambini e gli anziani che ci sono affidati, così poco capaci di elaborarla e contrastarla.

Chi ha perso gli affetti più cari non sa più cosa desiderare, il vuoto che sente all’intorno diventa opprimente. Chi ha perduto tutto si chiede cosa fare e si smarrisce rispetto a un futuro senza volto. Non siamo più gli stessi. È cambiata persino la posizione che assumiamo nel letto, una volta superata la paura che blocca in macchina o nel camper. E resta solo una stanchezza che viene da lontano, che crea una cappa di tempo sospeso e non lascia presagire nulla di buono.

2. La risposta insensata

Un’idea infantile di Dio

C’è chi è arrivato a dire, o a scrivere, che il terremoto è una punizione divina. Dovrebbe rileggere il libro di Giobbe.

Scoprirebbe l’insensatezza e la falsa religione del “teorema della retribuzione”. Come se «ce lo siamo meritati» possa essere una risposta alle nostre domande addolorate. L’idea di un Dio che premia e punisce in questo modo è infantile. Lascia il cielo drammaticamente vuoto.

La nostra sofferenza apre lo sguardo a un Dio diverso: quello che fa appello alla piena maturità dell’uomo, alla sua totale responsabilità, rinunciando a ogni paternalismo, a ogni manifestazione pietosa.

3. Un Dio per adulti

Cosa possiamo sperare?

Il Dio cristiano è un Dio per adulti. E se pure non si è mai pienamente adulti, questa consapevolezza ci aiuta a vincere la tentazione di un rapporto infantile e narcisistico con il Signore, ci salva dal vizio di fare di Dio un «tappabuchi», come diceva Bonhoeffer, per turare le falle nelle nostre conoscenze. Cosa possiamo sperare allora? Le Scritture e le interpretazioni più profonde che ne sono state date ci accompagnano per mano. Ricoeur scrive pagine che sono luce per attraversare questo tempo buio. A partire da Giobbe suggerisce una visione sapienziale del male, che prende le mosse dal crollo delle certezze e della pretesa di poter comprendere tutto con le nostre categorie. Senza dichiarare non-senso ciò che non comprendiamo. È un passaggio difficile, un passaggio di fede.

4. Cammino in tre tappe

Faccia a faccia con il Tu divino

Ci sono tre tappe di questo cammino di saggezza che ci possono aiutare. La prima è appunto il rifiuto di un’idea retributiva: essere consapevoli che «Dio non ha voluto punirci».
La seconda è lasciare spazio al dolore: «Fino a quando, Signore?». Si può essere arrabbiati con Dio: è l’impazienza della speranza. La stessa che, col suo linguaggio paradossale, descrive Lutero: «Ci sono lodi più splendide in certe bestemmie di disperati che salgono in cielo, che in tante lodi compassate di persone che stanno bene».

La terza tappa, infine, è il momento del “credere senza garanzia”. È riconoscere che per credere non c’è bisogno di spiegare l’origine della sofferenza. Non si ama Dio perché esaudisce i nostri desideri, né lo si odia se il male piomba nelle nostre vite. Giobbe, alla fine, è capace di amare Dio “per nulla”.

Ciò significa uscire completamente dal ciclo della retribuzione, di cui la lamentazione resta ancora prigioniera. È una saggezza attraverso la sofferenza (“nonostante”, ma anche “grazie a”, perché sempre il dolore ci dà occhi nuovi). Ci si ritrova faccia a faccia con il Tu divino: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42, 5). Un consenso al di là del desiderio.

5. Radicalmente nuovo

Dalle macerie alla speranza

«Decifrare i segni della resurrezione sotto l’apparenza contraria della morte»: così diventa possibile avanzare la «risposta della sovrabbondanza di senso alla abbondanza del non-senso». Vuol dire riuscire a generare scintille di gioia anche in mezzo alle situazioni più difficili, custodire la speranza anche di fronte alle macerie. È fare dell’atto del morire un atto di vita, sulle orme di Gesù.

Aiuta a elaborare il lutto sapere che la gioia è ancora possibile quando si abbandona tutto. È la via della «libertà secondo la speranza». Si può dire con Ricoeur che la speranza è la «passione per il possibile», è «la disposizione dell’essere al radicalmente nuovo», che si esprime come «creazione immaginatrice del possibile». Rinnovati da questa sofferenza, abbiamo in dono la libertà di immaginare ciò che altri, appesantiti dalle cose, non hanno più il coraggio di vedere.

6. L’atto di fede

Un salto non garantito

C’è un quadro di Magritte, del 1960, che si intitola “L’atto di fede”. Rappresenta una porta chiusa dall’interno, ma sfondata, aperta sul cielo. Ci siamo costruiti un mondo di sicurezze materiali che è un mondo chiuso, ristretto. Una porta che lascia fuori gli altri, ma anche l’ampiezza dell’orizzonte, il respiro dell’universo, il rischio e la bellezza di ciò che è ancora da scoprire. Fede è vedere oltre la porta che ci siamo costruiti, con la maniglia ben chiusa. E questo gesto richiede una rottura.

Noi ci siamo ritrovati, nostro malgrado, in una situazione che è metafora concreta, scritta con pietre e polvere, di una società che più che liquida è in frantumi: macerie solide di un mondo che non regge più e va ripensato, se non vogliamo restare schiacciati da cambiamenti epocali rispetto ai quali il nostro individualismo ci lascia totalmente impreparati e fragili.

Eppure in questo attraversare in prima persona le macerie di un mondo da ricostruire siamo anche, noi per primi, a guardare la vita dalla prospettiva di quella porta sfondata. Pronti a quel salto non garantito che è l’atto di fede adulta. Più vicini alla verità, più capaci di sentire nelle fibre del nostro essere che si può vivere, con dignità e umanità, senza muri, ma non senza fede. Che poi è corda, legame, senso della connessione di tutto con tutto. Sapere che ogni nostro gesto, parola, silenzio porta inevitabilmente qualcosa nell’universo, dà forma al mondo.

7. Salvarsi a vicenda

Dare forma al mondo nuovo

Soprattutto, sapere che è dal legame che si può ripartire. Non dal “si salvi chi può”, ma dal salvarsi a vicenda. Attraversando insieme il vuoto, il deserto, le macerie di un mondo che fino a ieri sembrava un’oasi. Un esodo forzato oltre quella porta, in un cammino pieno di incognite, dove vita e morte, dolore e gioia, speranza e sconforto, comunione e solitudine sono sempre impastate insieme. Come è nella vita vera.

La realtà non si può mai afferrare pienamente, ci sfugge sempre. In questo momento è la mano ruvida della realtà ad afferrare noi. Un realtà nuda, senza travestimenti. Né pettinata, né profumata, direbbe papa Francesco, e per questo maestra di verità.

Siamo nella condizione di rendere di nuovo abitabile un piccolo paradiso diventato deserto. Di dare forma con ogni nostro gesto al mondo nuovo che nascerà dalle macerie. Facciamolo con fede adulta, tenendoci per mano, invitando chi ancora sta dietro le porte chiuse a camminare con noi.

8. In perfetta letizia

Non è gioia a buon mercato

Forse allora scopriremo una volta per tutte la profondità e la radicalità della ‘perfetta letizia’, di cui parla il nostro san Francesco. Non una gioia a buon mercato che seduce e poi abbandona, ma qualcos’altro che nella sua stesura più antica risuona nell’acerba, ma espressiva lingua italiana del Trecento.

Leggiamo dunque per intero, con attenzione, il celebre testo dei Fioretti, in atteggiamento meditativo, perché sono parole che ci toccano tutti nel profondo, e offrono la chiave per vivere con pienezza, anziché subire, gli anni difficili e vitali che ci aspettano.

È qui e in questo perfetta letizia

Come andando per cammino santo Francesco e frate Leone, gli spuose quelle cose che sono perfetta letizia.

Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angioli con frate Lione a tempo di verno, e ‘l freddo grandissimo fortemente il crucciava, chiamò frate Lione il quale andava innanzi, e disse così: «Frate Lione, avvegnadioché li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione; nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia».

E andando più oltre santo Francesco, il chiamò la seconda volta: «O frate Lione, benché il frate Minore allumini li ciechi e distenda gli attratti, iscacci le dimonia, renda l’udir alli sordi e l’andare alli zoppi, il parlare alli mutoli e, ch’è maggior cosa, risusciti li morti di quattro dì; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia».

E andando un poco, santo Francesco grida forte: «O frate Lione, se ‘l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare, non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia».

Andando un poco più oltre, santo Francesco chiamava ancora forte: «O frate Lione, pecorella di Dio, benché il frate Minore parli con lingua d’Agnolo, e sappia i corsi delle istelle e le virtù delle erbe, e fussongli rivelati tutti li tesori della terra, e conoscesse le virtù degli uccelli e de’ pesci e di tutti gli animali e delle pietre e delle acque; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia».

E andando ancora un pezzo, santo Francesco chiamò forte: «O frate Lione, benché ‘l frate Minore sapesse sì bene predicare che convertisse tutti gl’infedeli alla fede di Cristo; iscrivi che non è ivi perfetta letizia».

E durando questo modo di parlare bene di due miglia, frate Lione, con grande ammirazione il domandò e disse: «Padre, io ti priego dalla parte di Dio che tu mi dica dove è perfetta letizia».

E santo Francesco sì gli rispuose: «Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ‘l portinaio verrà adirato e dirà: Chi siete voi? e noi diremo: Noi siamo due de’ vostri frati; e colui dirà: Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbarcene e sanza mormorare di lui, e penseremo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfetta letizia.

E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, ché qui non mangerete voi, né albergherete; se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia.

E se noi pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolezzato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni; e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia.

E però odi la conclusione, frate Lione. Sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri, ma di Dio, onde dice l’Apostolo: “Che hai tu, che tu non abbi da Dio? e se tu l’hai avuto da lui, perché te ne glorii, come se tu l’avessi da te?”.

Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione ci possiamo gloriare, però che dice l’Apostolo: “Io non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo”».
A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.

Rieti, 27 novembre 2016
Prima domenica di Avvento

Rieti
27-11-2016