Il vescovo Pompili: «Un New Deal per il Centro, qui le radici dell’italianità»

Nel Recovery Plan per portare l’Italia fuori dalle secche sarebbe un errore assegnare un ruolo marginale al Centro Italia. «E’ un’area strategica e di cerniera, oltre che un collante culturale tra il Nord orientato verso l’Europa e il Sud proteso verso il Mediterraneo». Monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti e amministratore apostolico ad Ascoli Piceno, si inserisce nella riflessione aperta dal Messaggero sul post covid mettendo in luce che in questa delicata fase non si tratta solo di allocare risorse, ma di progettare un nuovo corso, oltre la mera dimensione economica. Altrimenti si andrebbe poco lontano.

Il sociologo Diotallevi ha aperto la riflessione sul ruolo del Centro-Italia. Cosa pensa di questo dibattito visto che questa area è un simbolo che rimanda alle radici cristiane del continente: Roma, Assisi, Greccio, Subiaco, Montecassino, La Verna?

«Il Centro è, in effetti, la ‘matrice’ dell’Italia. Lo si è visto bene anche con le celebrazioni dantesche. Tanto interesse non nasce a caso. Il poeta fiorentino ha inventato l’italiano, come lingua madre, ben prima degli italiani».

In che senso?

«Nel senso che l’Italia Centrale viene prima perché rappresenta quell’elemento di coesione, che se trascurato rischia di indebolire il tutto. Non è possibile ricostruire solo sulla base di traiettorie economiche: l’economia da sola non può unire in un momento come questo. Il piano va allargato a dinamiche che fanno emergere meglio l’idea che “tutto è connesso”. Senza radici ideali e culturali, peraltro, il rischio è di essere assorbiti dalla logica del profitto che pretende di mettere assieme quando invece divide. Il Centro è il punto di congiunzione tra il Nord e il Sud. Se viene a mancare non è che si accorci l’Italia, la si cancella».

Poco prima di Pasqua, durante una celebrazione, in una frase ha concentrato la disperazione di tanta gente: “C’è una depressione al netto del Covid che si taglia a fettine. Ma non fatevi abbrutire”. Che trasformazioni sul territorio vede e tocca con mano? 

«Vedo la depressione come una nebbiolina che avvolge tutta la realtà. E non è stato tanto il Covid a produrla, semmai l’ha amplificata. Gli indicatori sono due: da una parte la mancanza di vitalità, nel senso che non c’è più crescita demografica. Dall’altra, come conseguenza, vi è una perdita di creatività. La rinascita post Covid è però possibile. L’Italia è una realtà policentrica che trova nelle Città intermedie (al di sotto dei 100.000 abitanti) un fermento insospettabile che va accompagnato. La questione ambientale trova in tale contesto una facilitazione se è vero che in tali realtà minori il rapporto tra energia e consumi è più equilibrato. Infine è urgente ripensare al rapporto tra lavoro e denaro, restituendo al primo la capacità di orientare e al secondo la dignità di mezzo e non di fine. Da questo punto di vista, il Centro Italia è un motore economico, la cui colonna portante è formata da piccole e medie realtà artigianali, dove la capacità imprenditoriale fa la differenza».

Capitolo terremoto: lei, assieme ad altri vescovi, è stata una sentinella che ha sempre parlato apertamente, senza timori. Anche recentemente ha affermato che la ricostruzione va a rilento. A che punto siamo?

«La macchina burocratica è estenuante e va resa più efficiente. I bizantinismi sono al limite del patologico. Sul terremoto non tutto è fermo. Va dato atto al Commissario Legnini di avere accelerato una serie di passaggi. Speriamo di vedere qualcosa di significativo nei prossimi mesi».

Quanto è possibile fare il pastore rispetto ad una burocrazia ingessata?

«A volte è estenuante. Le faccio un piccolo esempio: quest’anno sono aumentati i disagi dei ragazzi. Così insieme alla Asl abbiamo deciso di portare avanti un progetto comune per curare i disturbi alimentari degli adolescenti. Abbiamo messo a disposizione alcuni locali della Cattedrale, ma si fatica ad andare avanti. Permessi su permessi, tempi di attesa dilatati per una firma, rimpalli tra un ente e l’altro. Purtroppo questo mondo conosce diverse velocità. Il virus muta rapidissimamente. La burocrazia è lì immobile».

Da vescovo cosa vorrebbe dire se ne avesse la possibilità al presidente Draghi?

«Che investire sul Centro Italia è un debito… buono. Si tratta, infatti, di un luogo di passaggio. Però servono strutture materiali e immateriali. Penso alla Salaria che ha bisogno di essere potenziata. E’ una consolare che – come dice il nome – collega due mari e mette in contatto con la dorsale adriatica. I romani lo avevano capito bene: era strategica. Così come la “ferrovia dei due Mari”, il cui primo progetto risale al 1861 (!). Da Ascoli, passando per Rieti, arriverebbe a Roma e, quindi, a Civitavecchia. Il punto è che facendo la spola tra Rieti e Ascoli, ma anche transitando per Terni o per L’Aquila mi rendo conto che questo territorio ‘svolterebbe’ se fosse un luogo di passaggio e non un tappo. Qualche politico scherzosamente mi chiama ‘assessore-ombra alle infrastrutture’, ma è chiaro che le vie di comunicazione sono ciò che fanno vivere o morire un territorio. In questo momento troppe sono le aree di “penombra ischemica” che soffrono per l’amputazione delle arterie vitali. Sulle infrastrutture del Centro Italia il Governo dia un segnale chiaro. Solo così anche le zone del terremoto tornerebbero a vivere».

Lo spopolamento, a suo parere, è un processo inarrestabile?

«Se non si interviene senz’altro. Ci sono Comuni al di sotto dei 100 abitanti e decine e decine sotto i 1000. Qualche volta capita di stare in parrocchie che sono dei villaggi. Eppure siamo a pochi chilometri da Roma. Potenziando i collegamenti e le connessioni da e per le grandi Città, potrebbe cambiare qualcosa. Cogliendo quel poco di buono che ci deriva dal Covid, per esempio, si potrebbero ripensare i luoghi dell’abitazione e quelli del lavoro, guadagnandone in vivibilità. Senza dire che da sempre c’è una connessione vitale tra Città e montagna. L’acqua di Roma non nasce a piazzale Ostiense, ma sulla dorsale appenninica che costeggia la Salaria. Mettere in sicurezza le sorgenti vuol dire garantire alla Metropoli la fonte prima della vita. E, reciprocamente, riconoscere all’entroterra la risorsa più preziosa».

Nel 2025 ci sarà il Giubileo: questo appuntamento potrebbe aiutare a risollevare la macro area territoriale del centro Italia, simbolo delle radici cristiane?

«Il Centro Italia è la terra di Francesco, di Benedetto, di Caterina. Ci sono luoghi come la Verna, Assisi e tutta la Valle santa reatina (Fontecolombo, Greccio, La Foresta, Poggio Bustone) che potrebbero costituire una piattaforma europea per il turismo slow, il turismo religioso. Luoghi che offrono a chi li visita la possibilità di riscoprire la dimensione del corpo e dell’anima, e di vivere meglio. Da questo punto di vista, prima e dopo il Giubileo, ci attendono numerosi appuntamenti relativi all’VIII centenario francescano: nel 2023 la Regola e il primo Presepe a Greccio; nel 2024 le Stimmate a La Verna, poi l’anno successivo il Cantico delle Creature e nel 2026 la Morte di S. Francesco ad Assisi. Ritrovare del Poverello il suo sguardo contemplativo, che sa unire e non dividere, è un lascito sempre attuale».

Franca Giansoldati, Il Messaggero