Il vescovo Domenico sull'Opedale: più comunità, meno azienda

Per me è un grande piacere essere qui oggi, e direi anche un dovere, perché visitare gli ammalati è una delle opere di misericordia corporale.



Ma il contatto con chi sta soffrendo è necessario, perché è una di quelle esperienze che dilatano il cuore. Si va a fare qualcosa che può essere di conforto, ma in realtà si riceve molto di più in termini di sensibilità e anche di umanità.



È sorprendente che nel Vangelo che abbiamo ascoltato, tra i segni che dicono che il Regno è già tra di noi, c’è quello per cui si impongono le mani sui malati: a dire un qualcosa che la fede cristiana ha poi fatto diventare bene comune, per il quale quelli che più stanno in difficoltà sono oggetto di una particolare attenzione.



Perché la malattia, il dolore, la sofferenza, rimangono dei grandi punti di domanda di fronte ai quali occorre inchinarsi, possibilmente cercando di non imprecare. Ma certamente non possiamo andare molto al di là dei drammi, e ciascuno conosce i propri. E tuttavia l’esperienza può essere quella che ci aiuta a far venire fuori meglio la nostra umanità. È questo ciò che ci accomuna tutti: personale medico, paramedico, familiari, pazienti.



Vi vorrei dire un’ultima cosa rispetto a questa realtà – che oggi si usa chiamare azienda, ma che una volta si chiamava ospedale – ed è l’invito a riscoprire un altro termine, che è quello di “comunità”: l’ospedale è sì un’azienda, nella quale chi ne ha la responsabilità deve far sì che i conti tornino. Ma non può essere semplicemente un problema di contabilità economica da guardare insieme con la Regione. E non può essere nemmeno qualcosa di staccato rispetto alla città o al territorio. È una comunità in cui ciascuno dei soggetti gioca un ruolo importante, in cui ciascuno deve sentirsi chiamato in causa: dai medici e dai responsabili, noi pazienti o potenziali pazienti esigiamo tanto e a ragione, perché nel momento della difficoltà occorre che la qualità della prestazione non lasci ombre. E dobbiamo perciò lavorare affinché tutto quello che si sta facendo diventi persuasivo sul piano della qualità dei servizi.



Però vorrei dire che vale anche il contrario, che noi pazienti dobbiamo assumere un atteggiamento nei riguardi della struttura sanitaria più rispettoso, più attento, più partecipe, perché questo significa che non dobbiamo semplicemente attendere dei servizi, ma dobbiamo essere capaci di chiedere i servizi che sono veramente necessari. Dobbiamo cercare di chiedere ciò che è davvero richiedibile. Dobbiamo fare in modo che questa casa – che è della comunità e dunque è un qualcosa di pubblico – ci stia a cuore al di là di quando ne abbiamo noi realmente bisogno. Se si riscopre questa dimensione della comunità e non semplicemente dell’azienda – che è necessaria, va presupposta, ma non può essere sufficiente – io credo che andiamo nella direzione che tutti segretamente auspichiamo nel nostro cuore. Io qui posso solamente far sì che la preghiera che qui condividiamo possa essere di supporto e di sostegno a questo auspicio.