Discorso alla Città, mons. Pompili: «decifrare i segni di risurrezione sotto l’apparenza contraria della morte»

Ha preso le mosse da un richiamo alla multidimensionalità dell’umano il Discorso alla Città che il vescovo Domenico ha pronunciato nella serata del 3 dicembre, durante la celebrazione dei primi vespri della II domenica di Avvento, alla presenza dei rappresentanti delle principali realtà civili, economiche e sociali del territorio diocesano. Rifacendosi al monito di Marcuse a guardarsi dall’uomo «a una dimensione», mons. Pompili ha insistito sull’esigenza di recuperare la «ricchezza dell’umano»: una necessità, questa, tanto più pressante in una fase che vede le nostre terre costrette ad affrontare gli effetti di un terremoto persistente.

Non poteva essere che il sisma il perno della riflessione del vescovo, che già lo aveva posto al centro della sua lettera pastorale L’atto di fede, pubblicata lo scorso 27 novembre in concomitanza con l’inizio del nuovo anno liturgico. In quel testo, come nel Discorso alla Città, don Domenico ha parlato diffusamente della «crisi» profonda determinata dalle scosse del 24 agosto e del 30 ottobre, foriere, oltre che di un immane lascito di lutti, pure dell’«infiacchimento psicologico anche dei più resilienti». Per far fronte a tutto questo non può bastare «un approccio solo economico e materiale, come non è sufficiente un approccio solo culturale e psicologico e neanche un approccio semplicemente spirituale e religioso. Occorre tenere insieme queste tre dimensioni». A confortare l’assunto del vescovo ha provveduto, nella celebrazione del 3 dicembre, la lettura breve prevista dalla liturgia, tratta dalla prima lettera ai Tessalonicesi dell’apostolo Paolo e tutta costruita sull’importanza dell’integrità dell’essere fatto di «spirito, anima e corpo». Da tale integrità dipende la possibilità stessa che la ricostruzione, nelle aree colpite dal terremoto, si metta realmente in moto o resti invece una promessa inadempiuta. Solo se si ritrova «uno spirito che sa immaginare altro rispetto alle macerie, che sa collocare questo momento in un tempo e in un senso diverso da quello dell’emergenza, si possono affrontare le difficoltà e i ritardi». Solo curando le ferite dell’anima, «il soffio che rende vivi e mette in relazione», sarà possibile innescare il «processo comunitario» da cui, oltre ai paesi di pietra, potranno risorgere anche «la coesione e l’entusiasmo della comunità». Solo riscoprendo il genius loci che continua a parlarci attraverso «questa crosta di terra spaccata» si riuscirà a liberare quelle «energie – legate soprattutto al turismo e al settore agroalimentare – che nella routine di una normalità tranquilla e un po’ sonnacchiosa erano rimaste intrappolate».

Lo spirito, l’anima e il corpo delle zone terremotate si configurano dunque come l’«intero che non può e non deve essere ridotto, mortificato, mutilato. Anche le macerie sono impastate di cielo». E il cielo – come mons. Pompili ha ricordato nella sua lettera pastorale – «non è drammaticamente vuoto». Esso è abitato da un Dio diverso da quello che abitualmente ci si immagina: non un Dio che capricciosamente premia o punisce, ma un Dio che «fa appello alla piena maturità dell’uomo, alla sua totale responsabilità». Alla luce di una fede più adulta e consapevole, che modifica lo sguardo sulle cose e il modo di percepirle e interpretarle, sarà forse più agevole «decifrare i segni di risurrezione sotto l’apparenza contraria della morte» e impegnarsi, con rinnovata speranza, a «rendere di nuovo abitabile un piccolo paradiso diventato deserto».