Ad Amatrice le celebrazioni per il centesimo dell’Opera, tra la forza del passato e la tenacia verso il futuro

Il centesimo compleanno dell’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia non poteva che essere celebrato ad Amatrice: è qui, nella sua terra natale, infatti, che il servo di Dio Giovanni Minozzi diede inizio a quell’avventura di carità che, all’indomani della Grande Guerra, iniziò a esprimere la sollecitudine pastorale verso le povertà delle popolazioni italiane in particolare del centro-sud. E sul tema “Amatrice e l’Opera: cento anni di presenza tra progetti, timori e speranze” si è svolto, subito dopo la festa dell’Assunta (giorno in cui nel 1919 nacque l’Onpmi), il convegno celebrativo. Un evento articolato tra memoria, attualità e profezia: oltre a ripercorrere la storia della creatura minozziana, ci si è soffermati sull’attuale utilizzo dell’area nell’emergenza del sisma e sul progetto di realizzare in essa la Casa del futuro che vuol segnare prospettive di ripartenza per la cittadina terremotata.

Nello spazio convegni del Polo del gusto sito di Villa San Cipriano, sul maxischermo scorrevano le immagini dei luoghi dell’Opera: l’istituto femminile minozziano – il primo a sorgere ad Amatrice, sbriciolatosi nella terribile notte del 24 agosto di tre anni fa provocando anche vittime tra suore e anziane ospiti – e dell’ampio complesso dell’istituto maschile – dove i padri e gli anziani ricoverati riuscirono a mettersi in salvo – seriamente seriamente danneggiato dalle scosse e destinato a diventare qualcosa di significativo. E insieme – nel pomeriggio moderato dalla giornalista del Tgr Rai Isabella Di Chio e allietato negli intermezzi musicali dalle fisarmoniche di Olimpia Greco e Riccardo Sanna – varie immagini che richiamano il dipanarsi del carisma di padre Minozzi, a partire dalla sua esperienza accanto ai soldati nella Prima guerra mondiale.

Il saluto di don Savino

Carisma che portano avanti le congregazioni religiose da lui fondate, i cui rappresentanti hanno aperto il convegno. A portare il saluto del consiglio generale della Famiglia dei Discepoli il superiore don Savino D’Amelio, fino a poco tempo fa parroco ad Amatrice. Un minuto di silenzio per il grave lutto che ha colpito la congregazione maschile con l’improvvisa morte di don Antonio Giura, per 13 anni segretario generale Onpmi e poi per altri 12 consigliere delegato. Don Savino ha richiamato il significato del convegno: «non un momento di autocompiacimento né autoreferenziale, ma di ringraziamento a Dio che attraverso i fondatori e tutte le persone che a vario titolo hanno operato in questo campo in questi cento anni», volgendo lo sguardo grato al passato ma anche proiettandosi verso il futuro «che vuol essere sempre più prossimo quale segno di solidarietà concreta verso il territorio».

Il saluto delle Ancelle

Per la congregazione femminile, è toccato alla vicaria generale delle Ancelle del Signore, suor Margherita Paolucci, porgere il saluto che, a partire dalle parole che padre Minozzi rivolse alla fondatrice delle suore, madre Maria Valenti, in una lettera inviata mentre si trovava in viaggio missionario a New York: un programma tracciato per le religiose, che per gli amatriciani sono state in tanti anni un punto di riferimento con «gesti di accoglienza, di preghiera, di generosità reciproca», e l’auspicio delle Ancelle è che «la nostra presenza ad Amatrice possa diventare in futuro sempre più concreta e idonea».

L’esperienza della guerra: l’intervento di don Bruno Bignami

L’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, uscita dalla creatività di Minozzi in tandem con il barnabita padre Giovanni Semeria, non si comprende senza il retroterra della tragica esperienza vissuta dai due sacerdoti negli anni della Grande Guerra, con la creazione delle “Case del soldato”. Una scommessa di carità le cui direttrici ha ripercorso l’intervento di don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale di pastorale sociale della Cei. Carità intesa come condivisione totale unendola all’educazione: sensibilità che Minozzi e Semeria maturarono dai tempi in cui erano cappellani militari al fronte. Leggendo il diario di guerra del prete nativo di Preta di Amatrice, emerge «che lui è uno dei pochi a mettere in luce il tema della inutilità della guerra, che poi Benedetto XV riprenderà. Nota subito che c’è qualcosa che non va e non nasconde le gravi carenze dell’esercito italiano, la sua disorganizzazione, addirittura scrive anche della incapacità di alcuni quadri dirigente».
Già alla vigilia della disfatta di Caporetto, ha evidenziato Bignami, Minozzi «si accorge che la situazione è sfuggita di mano e chi ha le responsabilità non è all’altezza, non è in grado di gestire. Questo il presupposto per far nascere le “Case del soldato”, anticipate da un’istituzione, la “sala ritrovo”, a Calalzo di Cadore. Di fronte a un degrado umano offre una risposta: presente una bibliotechina, offrire cultura a questi giovani. Di qui un’esperienza che si allarga sempre di più, dal Cadore si estendono a macchia d’olio e nel 1915 giungono alle “Case del soldato”».
Dietro c’era la preoccupazione «di offrire un riparo dal punto di vista etico, umano, ma anche luogo in cui formare le persone: uno spazio non semplicemente ricreativo, ma educativo». Un’esperienza – nell’ultimo anno di guerra si contavano in tutto il Nord Italia oltre quaranta Case del soldato – che non poteva chiudersi con la fine del conflitto: proprio il dopoguerra mostrava la necessità di un intervento che Semeria (orfano di guerra lui stesso, avendo perduto il papà nella guerra del 1866) e Minozzi espressero nell’attenzione al Meridione d’Italia: attenzione, ha spiegato il relatore, che era «soprattutto alla gente contadina, quella che rischiava di pagare di più le conseguenze di quel drammatico conflitto».
Ecco i tanti bambini e ragazzi che quella “inutile strage” aveva reso orfani diventarono l’oggetto dell’attenzione dei due religiosi nel dare vita all’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, a partire dal primo istituto femminile con le dodici orfanelle affidate alle suore, collocato da Minozzi nella sua Amatrice, presso l’ex monastero delle benedettine da lui acquistato, in attesa del primo orfanatrofio maschile, l’attuale complesso dell’Opera che ha al centro la chiesa dedicata all’Assunta nella cui cripta riposano le spoglie del servo di Dio.

La storia dell’Opera

A ripercorrere la storia dell’Onpmi, il vicario generale della Famiglia dei Discepoli, don Cesare Faiazza: inizialmente posto, come ente morale, sotto tutela dell’amministrazione pubblica, recentemente è divenuto ente di diritto privato senza scopo di lucro. Tante le case dell’Opera sparse al centro-sud (ma con qualche presenza anche in Liguria, nelle terre di Semeria), affidate sia alle congregazioni minozziane che ad altre congregazioni religiose (in diocesi di Rieti, ad esempio, sono nate come strutture Onpmi la scuola materna di Santa Rufina affidata alle Suore di Santa Chiara di Fiuggi e la casa di riposo di San Pietro di Poggio Bustone gestita dalle Missionarie Cappuccine, come pure in passato l’asilo che ad Antrodoco gestivano le Figlie di Sant’Anna). Con le case dell’Opera, ha notato don Faiazza, Minozzi «voleva dare un’impronta educativa: per i ragazzi serviva assistenza ma anche educazione, e questo doveva avvenire per lui anche attraverso l’arte: le case dell’Opera sono state scrigni di arte». Egli voleva che i ragazzi fossero «educati al bello: per lui gli orfani non erano dei poveri bambini da compatire, ma veri e propri “padroni”» da servire nell’attenzione integrale alla persona.
Col passare degli anni la vocazione dell’Opera e dell’attività dei religiosi (ma sempre più spesso anche di realtà laiche appositamente sorte per gestire i centri Onpmi, in forma di cooperative, fondazioni, imprese sociali eccetera) ha conosciuto spesso una riconversione: «Agli “orfani neri” oggi succeduti gli “orfani bianchi” (i minori accolti in case famiglia e centri educativi) e poi ci sono i “nuovi orfani” che vivono oggi la solitudine, vale a dire gli anziani», sempre in fedeltà allo spirito del Minozzi e alla sua convinzione che «ci si doveva occupare anche della povertà spirituale oltre che materiale». La gestione centrale continua a far capo ai Discepoli, presenti oggi, oltre che in Italia, anche in Brasile, Perù, India (i religiosi contano attualmente una ventina di italiani e una quarantina di stranieri).

L’area dell’Opera dopo il sisma

La casa madre dell’Onpmi continua a essere l’istituto di Amatrice, il gran complesso di molteplici edifici che lo sciame sismico ha progressivamente compromesso, ma la cui area sin dall’inizio ha avuto un ruolo di primo piano nell’emergenza del terremoto. Ne hanno parlato Marcello Pietrobon, di Caritas italiana, e don Fabrizio Borrello, che guida la Caritas reatina.
È negli spazi afferenti all’Opera Don Minozzi che hanno trovato collocazione i container Caritas e le attività di condivisione, che si caratterizzano per essere aperti alla comunità amatriciana: «chiunque può chiedere di utilizzarli per un momento di festa, di aggregazione o di riflessione», ha spiegato Pietrobon. Mantenendo fede all’eredità di padre Giovanni Minozzi attraverso l’attenzione ai “nuovi orfani”, vale a dire alle nuove povertà: «I nostri spazi sono quelli in cui si vanno anche a cercare le nuove povertà, nel condividere, nello stare insieme, attraverso l’ascolto che permette di trovarle e cercare risposte, anche in momenti e modi diversi».
L’area del Don Minozzi, del resto, ha detto don Fabrizio, «ha una vocazione che è per sempre: c’è uno specifico che si mantiene, la vocazione si trasforma però continua». Per il direttore della Caritas diocesana «quell’area “sacra”, perché sacralizzata da un carisma come quello di don Minozzi che è poi si è trasformata in quell’opera straordinaria, si è caratterizzata nell’emergenza sisma sin dai primi istanti con la vocazione di luogo di condivisione di tante emozioni e sentimenti». Innanzitutto, vocazione «a mettersi insieme: era il punto in cui venivano portate le vittime del terremoto, dunque luogo di condivisione del dolore, della con-doglianza. Lì c’è stato il funerale, luogo del com-pianto: comunità sofferente che voleva condividere anche il pianto. Poi il luogo della solidarietà degli italiani e di tutto il mondo, dove è arrivata e distribuita tantissima roba: quindi, luogo del con-dividere, del mettere insieme agli altri. Adesso continua a essere il luogo dell’accoglienza, dello stare insieme, anche il luogo del gioco, con le esperienze estive per bambini, perciò luogo della speranza dove la convivenza ha riportato in quegli spazi anche la presenza dei bambini che si era persa perché la storia aveva cambiato la destinazione di quella struttura» che nel tempo era passata dall’accogliere i ragazzi ad accogliere gli anziani, «ma che è in qualche modo tornato».

L’area dell’Opera come “Impresa sociale”

Nell’area un gran lavoro lo svolge Promis, impresa sociale nata nel maggio del 2018 su impulso della Diocesi per la gestione di diverse attività, cominciando da quelle assistenziali nel cratere sismico. Ne ha parlato il direttore dell’Ufficio diocesano comunicazioni sociali, David Fabrizi, nella sua veste di membro del Consiglio di Amministrazione dell’impresa sociale. Tra i progetti che Promis porta avanti nelle zone terremotate, i centri estivi aperti a bambini e ragazzi ad Accumoli, Amatrice, Borbona: «una dimensione importante per il territorio, con Promis a fianco di Caritas, che offre servizio a circa 800 utenti». Poi la gestione dei centri di comunità impiantati da Caritas, «attraverso cui si cerca di dare tutte le risposte possibili: ci lavorano persone del territorio, in gran parte giovani».
Fabrizi ha evidenziato alcuni punti di contatto fra l’azione di Promis e il carisma lasciato in eredità da padre Minozzi: innanzitutto, la vicinanza alle giovani generazioni: «oggi un territorio “orfano”, come la guerra il terremoto azzera tutto: come Minozzi e Semeria non hanno ricostruito solo muri ma hanno offerto un modo attivo di stare nella società, così cerca di fare Promis, tenendo conto del senso pratico».
Poi l’attenzione al lavoro: «don Minozzi fece molto per avviare all’attività produttiva i suoi orfani; oggi solo il lavoro può salvare queste terre»; senza dimenticare la particolare attenzione che il sacerdote amatriciano aveva verso l’elemento femminile, non a caso «più della metà dei dipendenti di Promis sono donne».
Infine, il coniugare cultura e carità: padre Minozzi realizzò sale di lettura, piccole biblioteche, e tra gli opifici esistenti nel complesso dell’Opera amatriciana c’era la tipografia, ha notato Fabrizi: era «un modo non solo per dare lavoro ma per dire che anche sui Monti della Laga non si è isolati e si può produrre cultura». Tra gli impegni di Promis, ha concluso Fabrizi, anche il curare il sito web “Andare oltre”, voce della ricostruzione nell’area colpita dal sisma, che si propone di «raccontare tutte le esperienze positive che danno speranza».

Verso “Casa del Futuro”: demolire e ricostruire senza dimenticare lo spirito originario

La vasta area dell’Opera Don Minozzi – 500 metri quadri con una trentina di edifici – chiede di essere ripensata, nella ricostruzione, come un qualcosa di nuovo senza tradire l’ideale delle origini. Di qui l’ambizioso progetto di Casa del Futuro, che il vescovo Pompili, in seguito al protocollo d’intesa che ha messo insieme Curia, Comune, Regione, Famiglia dei Discepoli, Mibac e Miur, ha affidato all’estro dell’architetto Stefano Boeri. In rappresentanza dello studio di quest’ultimo, è intervenuto al convegno l’architetto Corrado Longa per presentare l’idea che tra qualche anno si spera possa trovare realizzazione.
L’ideatore del vasto complesso, Stefano Foschini, uno dei più grandi architetti della prima metà del Novecento, lo aveva pensato come «una cittadella, dove c’era una complessità di funzioni che sono state reinterpetati all’interno di una visione progettuale», ha spiegato Longa. I danni del terremoto hanno portato alcuni edifici ad essere già demoliti; quelli superstiti, seriamente compromessi, sono destinati anch’essi alla demolizione, «pur senza rinnegare lo spirito originario». Casa del Futuro si prospetta dunque come «un complesso di edifici e di spazi aperti, pensato per essere aperto alla città di Amatrice e reinterpretato nelle sue funzioni», con la dovuta attenzione «all’inserimento ambientale, alla sostenibilità ma soprattutto all’efficienza sismica». Il progetto si articola in quattro corti principali: una destinata a funzioni amministrative, dove troverà spazio la sede amatriciana del Museo diocesano e vi si ipotizza la collocazione anche del Municipio e della Polizia Stradale. La corte centrale, detta “del silenzio”, costituirà la sede dell’Opnmi e vi si ricollocherà la casa di riposo per anziani. Nella zona della chiesa, la terza corte da destinare all’accoglienza dei giovani, mentre la quarta corte si caratterizzerà per «spazi formativi, legati ai laboratori, al territorio, allo sviluppo della formazione dei giovani».

Il vescovo: «Per Casa del Futuro un cronoprogramma serrato, ma realistico»

Insomma, la sfida, secondo la sintesi conclusiva di monsignor Domenico Pompili, è raccogliere l’eredità del grande spirito di carità e di attenzione educativa che caratterizzò padre Giovanni Minozzi: «Dobbiamo avere forte passione educativa per le persone: senza questo traino affettivo tutto diventa complicato e impossibile da realizzare», ha detto il vescovo a chiusura del convegno, prima di passare alla sede del MuDA per l’inaugurazione della mostra fotografica dedicata all’esperienza dell’Onpmi. Ha confessato di essere emozionato, monsignore, dalla storia di padre Minozzi: colpito dal suo fascino «perché ha saputo vivere perfettamente dentro il suo tempo ma con una spinta a saper andare oltre le difficoltà: dopo l’esperienza tragica della guerra, una carneficina che uccise generazioni di gente del sud, voleva che i figli di quelli che aveva incontrato nelle trincee trovassero accoglienza e inserimento nelle professioni».
Di qui l’idea di Casa del Futuro, non a caso presentata durante il Meeting dei Giovani che, nel gennaio successivo al dramma del terremoto, la diocesi volle tenere proprio ad Amatrice. Illustrarne il cronoprogramma, ha precisato Pompili, significa ribadire «che la ricostruzione non si improvvisa, ha i suoi tempi. E abbiamo cercato di fare un cronoprogramma rigoroso ma non irrealistico. Non promettendo che domattina tutto sarà fatto: chi dice questo ci sta ingannando! Per ricostruire ci vuole del tempo, ci vuole una procedura con cui confrontarci. E richiede anche tanta pazienza, la voglia di lasciare tutto all’aria è incombente». Dunque, per agire «occorre che ci siano anche dei tempi, che non sono però relativi, perché decidono di ciò che sarà: se si allungano oltremodo non ci sarà questa possibilità». Per Casa Futuro la data prevista per fine lavori è agosto 2024. «Si tratta di demolire e ricostruire un’area così vasta e significativa. Per dare a quello che abbiamo avviato ad Amatrice una continuità nel tempo».