A sei mesi dal terremoto, il vescovo: «L’amicizia ci sostiene ma la gente è stanca»

Pompili: «Ricostruire relazioni ed economia ma non manchino lucidità e tempestività»

(di Simone Ciampanella) «Oggi a sei mesi dal sisma i giornali sono pieni di bilanci rispetto alla ricostruzione e ovviamente ce ne sono di ragioni per dire che molte cose non sono andate come forse avevamo immaginato». Sono le parole che il vescovo Pompili ha condiviso il 24 febbraio con la comunità di Amatrice nella casa della comunità “Sant’Agostino” installata da Caritas Italiana, per una celebrazione che è soprattutto di memoria e di speranza. Una Messa per commemorare le vittime del terremoto e per ricordare insieme la radice di quel senso di comunità necessario a restare uniti. Questo sostegno, dice il vescovo di Rieti, è nell’«amicizia tra di noi» che insegna Cristo. L’amore autentico disinteressato che «allarga il nostro cuore», oltre «i rapporti segnati dalla carne e dall’affetto amoroso», e amplia la prospettiva aiutando a guardare l’altro con fiducia che «è la benzina di qualsiasi ripresa». Per questo «vorrei pregare insieme con voi il Signore perché questa amicizia sia quella che caratterizza sempre di più le nostre relazioni».

Se la fraternità della comunità è l’aspetto principale da mantenere vivo, sono ovviamente molte le fatiche accumulate sulla pelle di chi ha vissuto il dramma del 24 agosto. A margine della celebrazione incontriamo il vescovo che ci delinea alcune di queste priorità.

Monsignor Pompili, qual è il punto della situazione?

Vorrei intanto chiarire che il terremoto non è qualcosa da cui ci separano sei mesi, ma un’esperienza seriale che ogni giorno mette in difficoltà la gente. Se si dimentica questo aspetto non si comprende la gravità della situazione. Detto questo distinguerei tre elementi che stanno a cuore alla Chiesa ma credo un po’ a tutti. Al momento ciò che è più disorientata è la qualità della vita delle persone. Se penso ai ragazzi che stanno ancora qui ad Amatrice o ad Accumuli, che vivono a scuola in un ambiente così desertificato, mi rendo conto che la prima emergenza è la ricostruzione dei legami tra le persone. Ma questo non basta. Si devono ricreare le condizioni economiche e facilitare possibilità di investimenti. Perché se le persone, una volta che le case saranno ricostruite, quando mai lo fossero, non avranno modo per lavorare, non torneranno. Bisogna trovare un motivo in più perché un luogo così devastato sia nuovamente abitato. Il terzo aspetto da tenere presente è quello relativo ai beni culturali su cui stiamo improntando alcune messe in sicurezza, non senza ritardi come già segnalato da diverso tempo, dentro una trama che è complicata ma che deve essere in qualche modo superata».

Come presidente della consulta regionale per i beni culturali ecclesiastici, quali procedure indica in questo senso?

«Indicherei due criteri generali. L’organicità, che significa avere contezza di ciò che è nostro, e di ciò che in questo caso è stato devastato. Non si può impostare alcun tipo di intervento se prima non sappiamo quali sono realmente le cose che ci appartengono e di cui dobbiamo avere tutela. E poi c’è la progettualità. Dobbiamo fare delle valutazioni attente perché non si può pensare ingenuamente di arrivare a soluzioni di tutti quanti i problemi in un colpo solo. È dunque necessario fare scelte che siano legate a criteri oggettivi e plausibili».

A questi problemi corrispondono adeguate attuazioni da parte dell’organizzazione generale?

«Va detto che l’opacità del momento politico rischia di flettersi negativamente sulla lucidità e sulla tempestività. A me sembra, ovviamente, che non possiamo permetterci né la mancanza di attenzione in un contesto così duramente provato, né i ritardi nella ricostruzione considerando che sei mesi sono stati già una prova impegnativa».