È stato il contesto prezioso dei Monti della Laga a fare da sfondo alla messa celebrata in occasione della festa del lavoro ad Amatrice dal vescovo Domenico. «Una bella giornata» che ha visto partecipare una completa rappresentanza delle diverse categorie economiche insieme al mondo delle istituzioni
«Non si raccoglie la noce con un dito solo: ci vogliono tutte le dita della mano». È con la semplicità di un proverbio africano che don Valerio Shango ha offerto la chiave di lettura della festa del Primo maggio organizzata dall’Ufficio Problemi Sociali e Lavoro della diocesi di Rieti ad Amatrice.
All’evento sono stati infatti invitati a partecipare non solo i sindacati, ma anche le organizzazioni datoriali, gli artigiani, gli agricoltori, il mondo del commercio. Una partecipazione allargata rispetto ai canoni della festa del Lavoro, voluta per sottolineare la trasversalità del tema e per ribadire il bisogno di una convergenza, di uno sforzo unitario. Perché, soprattutto di questi tempi, va riscoperto il campo del «bene comune», un’espressione che di fronte alle macerie e i morti di Amatrice e Accumoli perde ogni enfasi retorica per lasciare scoperta la sua cruda sostanza, il suo essere la dimensione ineliminabile di una società che va avanti.
Non a caso, la necessaria «ricostruzione» dei paesi terremotati è stata assunta da tutti i presenti come una metafora da estendere all’intera provincia. Non ci sono solo le macerie di Accumoli e Amatrice, o le strutture lesionate di Cittareale, Borbona, Leonessa. Lo sguardo è allargato a un territorio che – ha detto il presidente Ascom Leonardo Tosti – viaggia a due velocità. Da un lato c’è la Sabina romana, che pare aver trovato una sua strada per lo sviluppo; dall’altro ci sono le aree interne, capoluogo compreso, che risultano sempre più depresse, isolate, spopolate. Ma il disagio – ha ammesso il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi – riguarda buona parte dei paesi dell’appennino e ha a che fare con trent’anni di abbandono da parte dello Stato.
Una dimenticanza che si legge nelle infrastrutture carenti o incomplete, un tema che ha visto Cgil, Cisl e Uil tornare a battere il tamburo, riprendendo il discorso dal documento elaborato e sottoscritto insieme al vescovo Domenico e da lui consegnato al Capo dello Stato.
Se è la carenza di strade, ferrovie e reti di servizi che impedisce l’arrivo di imprenditori e investimenti, che soffoca lo sviluppo delle iniziative locali, hanno detto Walter Filippi della Cgil, Paolo Bianchetti della Cisl, e Alberto Paolucci della Uil, la «ricostruzione» deve necessariamente includere consistenti interventi in questa direzione. E su questo punto il sindaco di Amatrice ha invitato una sorta di «Patto», da stringere tra tutte le forze in campo, che sarebbe ben completato dall’estensione a cinque anni dell’esenzione fiscale concessa alle imprese attive nel cratere sismico.
«Soltanto quando è l’insieme che cresce, e non il singolo, si riesce ad essere tutti quanti realmente fecondi». Sono state le parole il vescovo Domenico, durante la messa, a mettere definitivamente a fuoco la questione. Guardando ai discorsi fatti da sindacati e forze sociali, al «Patto» evocato da Pirozzi, mons Pompili ha ricordato che lo sviluppo è possibile soltanto se «abbiamo in comune qualcosa che vada al di là dei nostri interessi particolari». Solo nel raggiungimento di un obiettivo più generale è possibile trovare spazio alla propria soddisfazione. Una tesi, questa del vescovo, implicitamente opposta a quella di chi pensa all’interesse generale come somma degli interessi particolari e l’interesse pubblico come somma degli interessi privati. Lasciare che ognuno si faccia strada da sé, infatti, esaspera la competizione e crea insicurezza sociale.
Quanto alle infrastrutture, don Domenico ha ripreso il discorso dall’etimologia della parola, ricordando che “Infra” sta ad indicare ciò che sta sotto e, in un certo senso, “prima”. Una sollecitazione ricca anche dal punto di vista spirituale, che risuona come un invito a guardare a ciò che “non si vede” eppure ci sostiene. Calata nel concreto della ricostruzione l’idea spinge a poggiare ogni sforzo su fondamenta solide. Senza infrastrutture moderne, infatti, «diverrà inutile parlare di sviluppo per queste terre ora in ginocchio». E il risultato si può conseguire a patto di essere uniti, di fare massa critica, e di allontanare ogni possibile disincanto o minaccia di rassegnazione.
«Bisogna ritrovare uno sguardo d’insieme perché diversamente non ce ne sarà per nessuno», ha ammonito il vescovo, che tornando sul tema del lavoro non ha mancato di cogliere dal Vangelo «un elemento non trascurabile dell’identità di Gesù, che viene identificato, non senza una punta di disprezzo, come “il figlio del falegname”». Oltre a rimandare a Giuseppe, ha sottolineato don Domenico, il testo di Matteo «fa scoprire l’esperienza di lavoro manuale che per trent’anni il Maestro ha vissuto, non come una iattura , ma come la possibilità di diventare veramente umano, cioè creativo». In un Primo maggio che a molti è sembrato la festa del “lavoro che non c’è”, la Parola sembrava proprio ricordare quanto il lavoro ci sia necessario per diventare uomini. Un discorso vero «innanzitutto per i giovani, che senza lavoro sono costretti a rimanere in famiglia, o ad andarsene all’estero».
Ma se il lavoro oggi manca, ha azzardato mons Pompili, è anche a causa della «tendenza è a far soldi più che a produrre ricchezza». Bisogna allora «ritrovare il gusto e la bellezza del fare che ci restituiscono alla nostra identità di con-creatori. L’uomo ha bisogno di sporcarsi le mani con serietà, responsabilità e sacrificio. Senza il lavoro non c’è l’uomo. Ma è vero anche il contrario: senza l’uomo il lavoro non si crea».