Il vescovo agli operatori pastorali: «andare verso l’altro senza aspettarlo al varco»

In occasione dell’incontro con gli operatori pastorali della diocesi, incastonato nel primo giorno della Valle del Primo Presepe, il vescovo Domenico ha invitato ciascuno a lasciarsi permeare dalla Gioia del Vangelo, per rendere efficace e viva l’azione pastorale e tornare sempre sulla dimensione fondamentale della vita cristiana, l’unica capace di fondare la comunità e riuscire attraente nei confronti dei lontani

Ha preso spunto dal ritrovamento di Nostra Signora di Aparecida di trecento anni fa, il vescovo Domenico, per condurre l’incontro con gli operatori pastorali della diocesi. Un episodio che vide tre pescatori, Domingos Garcia, Felipe Pedroso e João Alves, andare a pescare nel fiume Paraíba e tirare su, con le reti, una statua della Madonna. Il ritrovamento, preceduto da una lunga serie di tentativi infruttuosi, fu seguito da reti colme di pesci. L’episodio è stato citato da mons Pompili, lo scorso 2 dicembre in San Domenico, per invitare i presenti a rimuovere l’atteggiamento mentale che tende ad affidarsi alla lamentela. Perché è vero che «le reti della Chiesa sono fragili, forse rammendate», che «la barca della Chiesa non ha la potenza dei grandi transatlantici che varcano gli oceani». Ma è Dio che ha scelto di manifestarsi «proprio attraverso i nostri mezzi, mezzi poveri», come per chiarire che «è sempre Lui che agisce».

E da questa consapevolezza prende forza la Gioia del Vangelo che il vescovo ha proposto a ciascuno di ritrovare tenendo sullo sfondo l’Evangelii gaudium di Papa Francesco. Perché altrimenti si rischia di stagnare, di avere «facce da funerale»: tutto il contrario di come dovrebbe essere il cristiano, chiamato ad essere fedele al futuro aperto da Gesù, a non ripetere il passato, a non rimpiangerlo.

L’invito del vescovo è quello di papa Francesco: cercare di essere «una Chiesa che fa spazio al mistero di Dio: una Chiesa che alberga in se stessa tale mistero, in modo che esso possa incantare la gente, attirarla. Solo la bellezza di Dio può attrarre. La via di Dio è l’incanto che attrae». Ma questo atteggiamento è possibile a condizione di coltivare «una relazione personale con il Signore Gesù», unico vero antidoto «alla lamentela», fonte della forza necessaria per «sostenere le avversità con leggerezza».

Si tratta, è vero, di una prospettiva esigente. E proprio per questo mons Pompili, sempre seguendo la lezione di papa Francesco, ha voluto delineare una «bussola» per orientarsi, su «tre punti cardinali». Il primo mette in guardia dai possibili «pericoli», il secondo offre un «metodo» all’azione pastorale, il terzo consiste nell’imparare qualcosa sulla comunicazione dallo stile del Pontefice.

I pericoli

Quanto ai pericoli, si tratta innanzitutto di sfuggire alla tentazione di «ideologgizzare il messaggio evangelico», facendo della parrocchia una sorta di “centro sociale”. Questa riduzione, infatti, assimila la Chiesa a una qualunque Ong, o a una sorta di «stazione di servizio dei sacramenti».

Ma sta dietro la porta anche il rischio di fare dell’incontro con Cristo «una seduta psichiatrica, nella quale ciò che conta è l’autoconoscenza», fino a ricondurre la preghiera a una tecnica di rilassamento. «Così non si tocca la trascendenza, né tanto meno si diventa missionari» ha avvertito il vescovo che ha indicato una ulteriore criticità nella tendenza al costituirsi di «piccoli gruppi elitari, che si reputano dotati di una spiritualità superiore, quasi dei cattolici di serie A», e si pongono «al di sopra delle normali vicende ecclesiali».

Un’altra deriva il vescovo l’ha poi indicata nella tentazione del «funzionalismo», che consiste nel ridurre la Chiesa «a una serie di cose da fare con scrupolosa meticolosità, ma lasciandosi ispirare da un criterio quantitativo, pago solo dei risultati verificabili».

E poi c’è il «clericalismo» che è una sorta di «complicità peccatrice» che tiene i laici «in regime di sudditanza e non favorisce la crescita di personalità mature nella fede».

Il metodo

Identificate le «tentazioni da evitare», don Domenico ha proposto un «metodo infallibile» per contrastarle: quello di «muoversi verso l’altro e non di aspettarlo al varco». E per far questo occorre riscoprire «alcune condizioni che fanno dell’operatore pastorale un discepolo missionario»: ad esempio quella di accettare il fatto che la Chiesa non è più «il centro geografico della società». Oggi altri riferimenti strutturano la vita urbana o rurale, «sicuramente più il centro commerciale che la chiesa parrocchiale»: ciò nonostante, la parrocchia può ambire ad essere «un riferimento sicuro, come la fontana del villaggio verso cui la gente è attratta, grazie a quello che proponiamo e realizziamo con il catechismo, l’oratorio, le attività della caritas, il coro, le uscite insieme». Tutte cose che richiedono «una maggiore sinergia nel discernimento delle cose da fare» e un forte senso di «comunione», perché «non basta un leader che faccia da sé, ma ci vogliono tanti punti che si avvicinano per tessere la rete». Così facendo, sarà possibile anche ottenere una maggiore sobrietà, un lavoro pastorale che «non si appoggia sulla ricchezza delle risorse, ma sulla creatività dell’amore».

Lo stile di papa Francesco: comunicare in prima persona

Su tutti questi aspetti della vita pastorale è centrale la lezione di papa Francesco. Non vi è dubbio che il Santo Padre «stia risvegliando il desiderio di Dio con gesti e parole che annullano la distanza e ristabiliscono un rapporto che si era interrotto. In fondo, guardando a lui ancor prima che a quello che dice, si può intuire la strada da percorrere per una evangelizzazione che marchi da subito la qualità della relazione».

Il Papa venuto dall’altra parte del mondo «è oggi il più capace di intessere un rapporto di familiarità, di consuetudine, di fiducia, dentro il quale la trasmissione della fede diventa non solo possibile, ma quasi “naturale”». C’è dunque molto da imparare dal suo modo di porsi, di esprimere il presupposto ignaziano che «Dio è in tutte le cose», e quindi ovunque va cercato e valorizzato. Francesco ci insegna a rapportarci in modo consapevole allo spazio, al tempo e anche al corpo. Non si lascia intimorire dalle grandi distanze, ma ci consegna il compito fondamentale di uscire, di andare verso le periferie, verso chi è nella sofferenza, verso i lontani, proprio per avvicinare, ridurre le distanze, abbracciare, assecondare «la rivoluzione della tenerezza provocata dall’incarnazione del Verbo».

Quanto al tempo, in un’epoca frammentaria e distratta, nella quale ogni città, ogni gruppo, ha la sua lingua, i suoi riti, i suoi ritmi, papa Francesco «con le sue catechesi quotidiane a Santa Marta e l’Angelus domenicale, ma anche con la sua veglia di preghiera per la Siria e i tanti segni di accompagnamento degli accadimenti sulla scena globale, ci restituisce un ritmo comune che accompagna, scandisce e risacralizza il tempo ordinario così come l’evento straordinario, sostenendoci e offrendo un orientamento per attraversare questo presente complesso: non come individui ma come comunità, come Chiesa».

Una comunione che vive anche del contatto: dalle carezze e gli abbracci a malati, bambini, famiglie, «fino all’autoscatto con i giovani in piazza San Pietro (un bel modo di dire, senza parole, “sono dalla vostra parte”) e alle tante e ormai proverbiali telefonate, per superare col calore della voce il freddo della distanza e delle tante situazioni difficili».

«Comunicare è condividere» ha spiegato in conclusione il vescovo: «nessuno deve essere ricettore passivo, carta assorbente, semplice target di un messaggio. Per comprendere bisogna partecipare, e partecipando si fa comunità attorno a un centro vivo, che è la Buona notizia». Occorre allora «prendere sul serio l’interlocutore, anche quando esprime posizioni molto diverse, e andargli incontro sul suo terreno, cercando di valorizzare ciò che c’è in comune piuttosto che ciò che divide» e senza rinunciare ad «attraversare tutti gli ambienti»: anche un tweet «può avvicinare e invitare alla preghiera o ad un incontro», anche la dimensione digitale è aperta all’irruzione del divino.