Il cristiano fa, non è semplicemente

La riflessione che il vescovo Pompili ha proposto a catechisti, animatori liturgici, operatori Caritas e “addetti ai lavori” vari di parrocchie e organismi ecclesiali, ha avuto al centro l’invito a mettere Gesù al al cuore dell’annuncio e dell’azione pastorale.

Perché Cristo, ha notato monsignor Domenico durante l’incontro che precede l’avvio dell’anno liturgico, è quello che ancora può attrarre persone che di Dio dicono di poter fare tranquillamente a meno e di Chiesa, per carità, neppure vogliono sentire parlare.

Inutile girarci intorno, esordisce il vescovo: «In questo momento storico sembra che Dio non sia precisamente l’oggetto del desiderio della gente, anzi sembra non essere assolutamente fonte di interesse: dai bambini fino ai grandi si avverte un’atmosfera di indifferenza, ma ancor prima la sensazione di essere una minoranza».

Minoranza, e per di più «dentro un contesto plurale, in cui ci sono diversi atteggiamenti delle persone, non più una situazione monolitica come potevamo illuderci fosse fino a qualche decennio fa». Un atteggiamento generale verso la fede che sa «di dorata indifferenza» più che di contrapposizione. Peggio ancora per la Chiesa, «oggi percepita come un problema: i pastori e tutto ciò che ha a che fare con parrocchia e gruppi provoca non solo indifferenza, ma in qualche caso ostilità. Se Dio non è più considerato, la Chiesa è percepita come un qualcosa di distante».

Ecco, allora, l’unica «grande chance», come la definisce don Domenico: «tra Dio e la Chiesa c’è Gesù Cristo, che non cessa di attrarre. Tanto più le persone sono lontane, quanto più per la persona di Gesù c’è rispetto, hanno verso di lui una forma di incantamento. Gesù continua a incrinare le persone: è ciò che tra Dio e la Chiesa può fare la differenza». Ripartire da Cristo significa “farsi” cristiano, perché «cristiano si “fa”, non si “è” semplicemente». E per questo “farsi”, che riguarda ogni cristiano, cominciando da preti, suore, operatori pastorali, monsignore indica tre parole.

La fede

La prima: la fede, che spesso «concepiamo in forma un po’ astratta, teorica, puramente cerebrale, mentre la fede o contagia la vita o rimane all’esterno ed è perfettamente inutile». Più che “ciò che si crede”, il “ciò per il quale si crede”, dunque l’adesione a Cristo: «Credere è stabilire una forma di fiducia che stabilisce l’adesione a lui. I contenuti della fede vengono dopo. La fede che dobbiamo cercare di alimentare è innanzitutto questa», ed è anzitutto fiducia in Dio, che «ha un banco di prova incontestabile nella fiducia verso l’altro».

La metanoia

Seconda parola: la metanoia, ovvero quel “cambiamento di testa”, quella conversione che, ha sottolineato il vescovo, «non è prima di tutto una questione morale, ma una questione di sguardo. Significa cambiare il modo di guardare la realtà. Gesù quando aderiamo a lui la realtà ce la fa vedere in modo completamente diverso».
E l’esempio oggi più attuale è come guardiamo «il problema dell’immigrazione: se lo guardiamo solo con le deviazioni e le difficoltà che esso pone, non abbiamo lo sguardo del Vangelo», e allora significa «che la parola conversione non è ancora avvenuta nella nostra vita e senza accorgercene finiamo per imitare non la parola di Cristo ma le parole d’ordine volta per volta in voga oggi, i mantra dei nostri politici», finendo così per essere «non cristiani che hanno cambiato la realtà ma che si sono adeguati alla realtà».

Convertirsi è un qualcosa continuo, ribadisce il vescovo, ricordando come «la prima conversione è quella che da schiavi ci fa servi: schiavo è l’uomo che senza Dio finisce inevitabilmente dipendente da qualche cosa, perché l’alternativa da Dio non è semplicemente l’ateismo, ma è l’idolatria: se non credi a Dio crederai a qualche cosa dalla quale diventerai dipendente. Servo è colui che ha scoperto Dio e che ha capito che nella vita bisogna mettersi a servizio su».

Ma poi «c’è una seconda conversione: dall’essere servo al diventare amico di Dio. Questa è una conversione che richiede tutta la vita, ha a che fare in questo rapporto in cui non ci limitiamo a fare le cose di Dio, ma ci lasciamo semplicemente voler bene da lui». E qui «la parola più importante da ritrovare è la parola misericordia», cioè la consapevolezza «che al netto dei nostri errori, fallimenti, frustrazioni Dio dà sempre un’altra possibilità».

La sequela

Infine, la sequela: «parola antica, che mette ancora più in evidenza che credere, avere fiducia, aderire a Cristo significa mettere i nostri piedi dietro le sue orme. Consiste nel cercare di lasciarci plasmare da quello che di Gesù è più caratteristico. Gesù è particolarmente affascinante non nella sua divinità, ma nella sua umanità», e dunque «la prova del nove della nostra fede non è semplicemente alcuni atti religiosi che compiamo: c’è bisogno di gente che sia umana, che abbia uno stile di vita come quello del Maestro».

Quello di cui – e san Francesco docet, specialmente in questa valle reatina – a Natale celebriamo la manifestazione della piena umanità: «Gesù, facendosi uno di noi, ci mostra come si vive».