Ventennale del cimitero multiconfessionale di Rieti

01-11-2021

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.

Al di là della sua originalità letteraria, questa poesia di Ungaretti composta nel luglio del 1918 e intitolata Soldati, presenta un significato che ci riguarda da vicino. Il poeta fa emergere la tragedia esistenziale del primo conflitto mondiale: i versi sono scritti in trincea presso il bosco di Courton, vicino a Reims. A questo sentimento si associa l’estrema brevità del testo, che sembra quasi una fulminea scoperta della condizione assurda in cui versano i “soldati”, a cui si può facilmente sostituire il termine “uomini”. Soldati, infatti, può essere letta anche come una riflessione, breve ma assai incisiva, sull’assurdità della condizione umana e sulla sua intrinseca finitudine, che non può in alcun modo sfuggire al dolore e alla morte. I soldati paragonati a rade foglie autunnali, appese a fatica agli alberi, cadranno inevitabilmente, vittime di una legge universale e implacabile.

La folgorazione lirica di Ungaretti acquista un tono di “massima filosofica” che illumina questo tempo, che è dedicato ai Morti, la cui memoria si fa più struggente. Ricordare i morti, pensare ai morti, pregare per i morti è un modo per riconoscersi debitori verso chi ci ha preceduto ed avvertire che quel che siamo è in larga misura quel che abbiamo avuto in dote da loro. Oggi si tende giustamente a sottolineare che siamo debitori verso le generazioni che verranno, ma è possibile lasciare una buona eredità se non siamo capaci di riconoscere quel che abbiamo ricevuto a nostra volta? molto significativo che nella tradizione religiosa in genere sia stato percepito come necessario il seppellimento, un luogo nel quale il corpo trova collocazione, segnato da una pietra che testimonia, attraverso il nome, un’esistenza terrena unica conclusasi con la morte. Del resto gli antropologi assicurano che non solo l’Homo sapiens ma anche l’uomo di Neanderthal dava sepoltura ai morti, sovente riunendoli in un luogo su cui depositare fiori.

Per questo la scelta compiuta 20 anni or sono di creare uno spazio di sepoltura multiconfessionale e interreligioso merita una particolare attenzione. Non solo perché vent’anni fa si era all’indomani dell’attentato delle Torri gemelle che avrebbe innescato una strategia della tensione e dello scontro di civiltà che arriva ancora ai nostri giorni. Ma perché ideare uno spazio fisico dal valore così umanizzante a partire dalle tre grandi religioni monoteiste significa disinnescare quell’equazione tra Dio e la violenza che è la bestemmia più grande che sale verso il cielo. A vent’anni di distanza quell’intuizione che si deve al sindaco Cicchetti, allora condivisa dal vescovo Lucarelli, è un orientamento per interpretare il tempo che viviamo con la stessa profondità e la medesima consapevolezza e cioè che le religioni sono al servizio della pace. «Infatti, Dio l’Onnipotente non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il suo nome venga usato per terrorizzare la gente» (Omnes fratres, 285).

In quell’incontro fraterno, che ricordo con gioia, con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, abbiamo fermamente dichiarato che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue […]. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il suo nome venga usato per terrorizzare la gente». Perciò desidero riprendere qui l’appello alla pace, alla giustizia e alla fraternità che abbiamo fatto insieme:

«In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace.

In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera.

In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante.

In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.

In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre.

In nome della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.

In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini.

In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.

In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede.

In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra.

In nome di Dio e di tutto questo, […] [dichiariamo] di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio».