Una donna di nome Maria

Lectio ad Amatrice in occasione del progetto “Con Maria, in cammino con l’Arte, la Bellezza e la Cultura”
07-08-2020

1. Donna o madre?

Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
Di caritate, e giuso, intra ‘mortali,
se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disianza vuol volar senz’ali.

La tua benignità non pur soccorre
A chi domanda, ma molte fiate
Liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate” (canto XXXIII del Paradiso).

Mi avvio con Dante perché opera una congiunzione che sembra diventata impossibile oggi: in Maria di Nazareth mette insieme – senza imbarazzo – non soltanto la vergine e la madre, ma più radicalmente la donna e la madre. Oggi, sembra, infatti, che si tratta di dover scegliere: o si è donna o si è madre; quasi una variante – mi si permetta l’impertinenza – di un’altra stucchevole alternativa al femminile: o sei carina o sei intelligente?

A porre la questione, di recente, è stato M. Recalcati che ha prospettato il tramonto della madre che si sacrifica per accudire i figli. Il suo posto sarebbe stato preso dalla madre ‘narciso’, ossessionata dalla propria libertà e della propria immagine, che vede nei figli un ostacolo. Conclusione? Se nel passato la madre tendeva ad uccidere la donna, oggi è la donna che sopprime la madre. Secondo C. Saraceno, però, le cose non stanno proprio così. A parere della sociologa, lo psicanalista rischia di ridurre al vecchio aut-aut (la maternità o la carriera) un dilemma complesso. Perché scrive Saraceno: ”l’amore materno, a differenza di quello paterno, deve essere a riparo da altre passioni, desideri, attività”.

Guardando a Maria di Nazareth vorrei far emergere una persuasione, che ho peraltro riscontrato nella mia esperienza della madre, che mi autorizza ad addentrami, ad inoltrami nel mistero dell’altro da me. La persuasione, anzi, la mia convinzione è presto detta: non si è compiutamente donne se non si desidera essere madri (non necessariamente facendo figli), ma più radicalmente, non si può essere madri vere senza essere donne compiute. Detto in modo più esplicito: una donna non può aprire il suo corpo ai figli, consentendo loro di amare la vita, se non è in grado di accoppiarsi eroticamente (in modo profondo e non in superficie) con il suo uomo. La passione amorosa non è poca cosa per la donna, sta al centro del suo modo di essere. Ne segue che la sua realizzazione come cittadina e lavoratrice non è in contraddizione con questo, ma ne deriva e ciò pone all’arrivismo maschile un argine.

2. Essere madre, continuando ad essere donna

La storia del re Salomone (1 Re 3,16-28) , è un racconto drammatico che introduce alla madre che è prima ancora donna. E la maternità non è tutto. Un giorno andarono dal re due donne che abitavano nella stessa dimora e che da poco erano diventate madri entrambe. Si presentarono dinnanzi a lui e una disse che il figlio della ragazza che l’accompagnava era morto durante la notte perché questa vi si era addormentata sopra e che questa aveva posto su di lei, mentre dormiva, il figlio morto, prendendo invece quello vivo. L’altra donna replicò che non era vero, che il figlio morto non era dell’altra e che non vi era stato alcuno scambio. Allora il re ordinò di farsi portare una spada e disse che avrebbe tagliato a metà il figlio vivo e che avrebbe dato una parte all’una e un’altra parte all’altra. La madre del bambino si rivolse al re dicendo in lacrime di dare il bambino all’altra donna, mentre l’altra rispose che il bambino non doveva essere di nessuna delle due e doveva essere diviso a metà. Il re disse: “Date alla prima il bambino vivo. Questa è sua madre”.

Questo racconto spiega come la funzione materna, non patologica, preferisca la vita del figlio senza proprietà rispetto alla morte di questo. Questi sono due aspetti della maternità, una madre che soffoca, schiaccia il figlio e il suo desiderio, quella che si definisce la mamma “chioccia” che vuole sempre i suoi figli con sé, o quella che Lacan definisce la mamma “coccodrillo”, che finisce per ingoiare suo figlio. Il rischio della maternità è questo, la completa fusione, l’assenza di identità. È proprio in questa fase che occorre il padre, con la sua funzione di porre delle regole. Il bastone che va messo tra le fauci del coccodrillo è il Nome del Padre che impedisce al figlio di morire, evita l’incesto, ed impedisce che questo venga completamente assorbito dal materno.

Non solo serve il padre per evitare la morte matricida del figlio, ma occorre che la madre si ricordi di essere anche donna, la funzione materna non può uccidere l’essere donna. Lo scontro sembra essere un po’ quello tra Maria, madre per eccellenza nella visione patriarcale, una versione socialmente accettata, benefica e positiva, ed Eva, incarnazione per l’ideologia patriarcale di una donna cattiva, peccaminosa, lussuriosa. Dominava dunque una visione della donna schizoide e manichea, dove la donna era il male e la madre era il bene. Ora questa visione, con la libertà sociale e sessuale acquisita dalle donne, è venuta meno, anzi è stata radicalmente sovvertita; le donne oggi lavorano e hanno sempre meno tempo da dedicare ai propri figli. Va rimarcato che è proprio l’assetto sociale attuale che sancisce questa bipartizione tra donna e madre e la loro completa scissione, al punto che nell’ipermodernità la maternità è vissuta come un handicap alla propria affermazione sociale. L’integrazione di queste due anime del femminile, della donna e della madre è, dunque, necessaria, poiché l’una senza l’altra sono destinate a fallire. La loro convivenza dinamica rende la funzione materna attiva nel processo di affiliazione e di umanizzazione della vita. Nel suo desiderio la donna salva il bambino, non nell’essere in completa simbiosi e fusione, ma nel fatto che, non solo la madre, ma anche la donna abbia un desiderio che vada al di là della maternità; il bambino ha bisogno della presenza ma allo stesso tempo dell’assenza della madre. 

3. Le mani, il volto e il seno della madre

Tre sono i tratti fondamentali della madre che si ricavano dal suo essere donna.

Le mani materne sono mani che trattengono la vita nella vita, sono mani che non abbandonano, ma che, anzi, ci afferrano nell’attimo in cui percepiamo la caduta nel vuoto. Le mani della madre sono di per sé già un linguaggio, certamente non alfabetico, ma, come dice Lacan, nello sviluppo della soggettività non c’è un tempo che ha preceduto il linguaggio e poi un tempo che segnala l’accesso al linguaggio. Tutto è linguaggio: quando le mani della madre lavano il piccolo, quando se ne prendono cura nelle diverse forme, lì, in quei gesti, c’è già lo scambio di significati che Lacan, come ricorda ancora Recalcati, chiama “lalangue“, ossia “lalingua“, in una scrittura unica, attaccata. “Lalingua” è, in questo caso, appunto, non alfabetica, non articolata o scandita entro i limiti della scrittura, ma si tratta di un linguaggio fatto di suoni, di gesti, proprio delle mani materne.

Il secondo tratto fondamentale è il volto: “C’è stato un tempo – spiega M. Recalcati in “Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno”– in cui per ciascuno di noi il volto del mondo ha avuto il volto della madre“. Cosa significa? Significa semplicemente che la nostra esplorazione del mondo è stata soprattutto, da principio, esplorazione del volto della madre, ed in verità ci siamo potuti guardare, per ciò che siamo, solo attraverso lo sguardo della figura materna. “La nostra immagine del corpo, la nostra identità“, continua Massimo Recalcati, “si costituisce sempre con l’incontro dello sguardo dell’altro, anzi, ancora di più, ciascuno di noi si vede così come l’altro lo ha guardato“. L’incontro con lo sguardo materno, dunque, fonda la nostra immagine e l’amabilità o meno della stessa: il volto materno è ciò che ci consente di vederci per quello che siamo. Ma non basta. Il volto della madre non è solo percezione e riflesso di noi stessi, è qualcosa di più importante: un bambino attraverso il viso della mamma incontra il viso del mondo, ossia il viso della madre apre o chiude il viso del mondo. L’angoscia dipinta nello sguardo materno si trasferirà immancabilmente anche in quella del figlio, che non sarà in grado di approcciarsi serenamente alla realtà esterna. Se la mamma, dunque, osserva il figlio ancora piccolo con occhi di paura e di ansia, il bambino crescerà nel pianto e nel terrore. Viceversa, se il volto materno si aprirà in un sorriso incoraggiante, il bambino sarà spinto, serenamente, ad esplorare il mondo con curiosità e audacia.

Il terzo ed ultimo punto focale dell’analisi di Recalcati è il seno, come elemento che la madre ha da offrire al bambino e che risponde al bisogno di cure che il figlio richiede al proprio genitore. Con il seno la madre soddisfa il bisogno di nutrimento del figlio, ma il tratto essenziale che si rivela dietro il seno non è solo questo: il seno si trasforma in segno quando la madre, offrendolo al piccolo, non lo usa semplicemente per soddisfarne le necessità fisiche, ma diventa simbolo necessario per confermare la presenza della madre. Il segno della presenza della madre altro non è che il segno della presenza del suo amore, donata attraverso il seno. Uno sdoppiamento fondamentale della figura della madre.

La madre sufficientemente buona è la madre che non dimentica la donna, ma ne viene attraversata e rigenerata. Bisogna riconoscere che anche nella storia della fede a proposito di Maria si è assistito ad una progressiva riduzione della femminilità e della carnalità della donna a favore di una spiritualizzazione ed evanescenza della figura di Maria. E anche in questo caso, la deviazione ha coinciso con l’isolamento di Maria dal figlio, che è stato espulso dalla sua rappresentazione insieme alla sua fisicità materna, ridotta ad una asetticità più vicina a certe modelle che a figure materne dolci e morbide (Cfr. M. MURGIA, Ave Mary! E la Chiesa inventò la donna).

4. La madre è la donna che apre al domani

“Mia madre”, di e con Nanni Moretti, è un film che parte dalla morte della madre, nel 2010. Nella pellicola la mamma è una professoressa di latino. La generazione che segue alla sua smarrisce il senso di questa materia scolastica e la successiva smette di studiarla quasi completamente, nonostante l’affetto così saldo per la nonna. Si tratterebbe, quindi, del distacco della società italiana dal retaggio materno della sua cultura umanistica,, così come è stata vissuta nel Novecento dalla borghesia. La morte di questa particolare madre simbolica, travolge i figli completamente, svuotati, nel lavoro e nella vita personale, mentre lei, la madre in procinto di morire, è l’unica a poter articolare seppure a fatica, la parola “domani” con cui il film si conclude. Una morte che lascia un vuoto incolmabile a fronte di un’impossibilità di tramandare e passare il testimone? La domanda è aperta e lasciata alla vicenda di ciascuno. Chiudo con quella di un gesuita che ha vissuto in simbiosi con la madre vedova ed è stato un grande educatore dei giovani. Scrive così p. Mario Rosin S.J. nella poesia:  “Tornando di sera dal funerale di mia madre”: … Luccichio d’un mondo/che non sento più mio/ora che non c’è più/quell’angolo di terra/che m’apparteneva/e che chiamavo: mia madre/. Mi sento/solo/e vecchio…/mentre il tempo/noncurante/mi trascina/sballottandomi/correndo/nel più fondo/della notte/delle cose./Eppure/scrutando in questo buio/sento le mie pupille/dilatarsi lentamente/sino all’Infinito.

Allora comprendiamo perché Maria, la donna, anzi la Madonna, sia per credenti e non credenti un “segno” da decifrare: è nel nome della donna che è madre, infatti, che si inaugura la vita e la si trascende per sempre.