«Allora aprì la sua bocca per ammaestrarli dicendo: Beati». Così come nel linguaggio comune dire ad uno “beato te!” vuol dire fargli un complimento per la sua vita felice, così Gesù parla della felicità non in astratto ma a partire da una serie di paradossali situazioni che definiscono la felicità. Noi siamo soliti far risalire alla dichiarazione di indipendenza americana (4 luglio 1776) il diritto alla felicità, ma in realtà il termine felice viene da molto più lontano e coincide con la parola pshysis che vuol dire natura ed indica ciò che genera. Chi è beato, cioè felice? Colui la cui vita è feconda e non sterile, porta frutto e soprattutto sprizza gioia. Il beato è con-tento, perché nella sua vita tutto si tiene armonicamente. Come è possibile tutto questo considerato che Gesù dichiara beato chi è povero, chi è afflitto, chi ha fame e sete della giustizia, chi è misericordioso, chi è puro di cuore, chi opera per la pace, chi è perseguitato per la giustizia? Mentre – stando alle rilevazioni – le principali fonti della felicita sono la salute e il benessere fisico, il rapporto col partner, i figli, la vita con un significato…
Ci sono almeno tre spunti che si ricavano dalle parole del Maestro che dobbiamo cogliere per arrivare ad una esperienza di felicità concreta e non caramellosa, della serie “… e vissero felici e contenti”.
Il primo è lo scarto tra l’avere e l’essere. Beati sono quelli che puntano non su quello che hanno o possono esibire, ma su quel che sono. Il ricco, il potente, lo spavaldo, il furbo fanno leva sempre e solo su quello che possono prendere. Invece il beato ancorché povero, afflitto, mite, indifeso fa leva su quel che può dare. Oggi la felicità è cosi rara perché abbiamo scambiato la vita per un meccanismo che funziona, mentre è una esperienza che vive. Se la depressione prende anche i più piccoli è perché non si sa più dove è la felicità che si scambia con il possesso delle cose, dei ruoli, delle performance.
Il secondo è la dimensione sociale e non solo individuale della felicità. Non si sta bene quando noi siamo a posto e gli altri non si sa. Pensare che quando sto bene io stanno bene tutti è un colossale equivoco che non ci porta alla felicità. Occorre ritrovare questo dato largo e quasi globale che la pandemia ci ha fatto riscoprire per cui siamo tutti connessi e nessuno si salva da solo.
Infine, il terzo spunto è che esiste «una ricompensa nei cieli», cioè c’è una prospettiva che riscatta anche il non-senso di quaggiù dentro una speranza più grande. Non si spiega la vita solo a partire da questa valle di lacrime terrena. Anzi, se ci si ferma a questa apparenza, si rischia di perdere di vista l’essenziale. Ci vuole una dimensione ulteriore di pienezza che fa sentire questa vita come la terra in cui il seme si immerge per rinascere spiga di grano. «Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto», pare dicesse spesso san Francesco, l’uomo della perfetta letizia.