Racconti che segnano

Apertura del XV festival della comunicazione – Molfetta
04-05-2020

1. Il filo delle generazioni: homo narrans

La nostra specie ha scritto la romanziera Nancy Huston, è “la specie fabulatrice”: è la sola a “lavorare a maglia delle storie per sopravvivere” (N. Huston, L’espece fabulatrice, Arles, 2008, 25). Del resto, già Aristotele nella sua Poetica, aveva precisato che l’uomo è un essere mimetico, abitato da un istinto che lo porta ad intrecciare la trama della sua esperienza e a tradurla in tante storie. Senza racconti, insomma, l’uomo rischia di perdersi in frammenti e dettagli che impediscono di comprendere il puzzle della propria vita. Per questo l’intelligenza narrativa è sempre anche un’intelligenza pratica: è legata alla domanda “che cosa devo fare?”. Nel suo saggio After virtue, Alasdair McIntyre, sostiene che gli esseri umani decidono che cosa è veramente importante e quale dovrebbe essere la loro condotta, riferendosi, in modo conscio o inconscio, alle storie che sono venuti a conoscere: “E’ ascoltando storie di perfide matrigne, di re buoni mal consigliati, lupe che allattano gemelli, figli cadetti che non ricevono nessuna eredità ma devono farsi strada da soli nel mondo e figli maggiori che dilapidano la loro eredità in un’esistenza dissoluta e vanno in esilio a vivere con i maiali, che i bambini imparano, nel modo giusto o in quello sbagliato, che cos’è un figlio e che cosa un genitore, quale cast di personaggi ci può essere nel dramma in cui si sono trovati a nascere e quali sono le strade del mondo. Privando i bambini delle storie, li si trasformerebbe in balbuzienti ansiosi e senza copione, tanto nelle azioni quanto nelle parole” (MacIntyre, Dopo la virtù, 258).

Per capire chi siamo bisogna comprendere di quale storia siamo parte, scrive papa Francesco nel suo Messaggio per la 54.ma Giornata delle Comunicazioni Sociali, bisogna “tessere storie”, sapendo che “non tutte le storie sono buone” e che “in un’epoca in cui la falsificazione si rivela sempre più sofisticata, raggiungendo livelli esponenziali (il deepfake), abbiamo bisogno di sapienza per accogliere e creare racconti belli, veri e buoni” (n.2).

2. La Bibbia, cioè, la Storia delle storie

È interessante notare che nella Bibbia è sempre a partire dall’interrogazione del figlio che il padre diventa tale. Un conto infatti è essere genitore e un conto è diventare padre. Per questo tutto nasce sempre da una domanda collocata nel cuore della notte di pasqua: “Quando i vostri figli vi chiederanno: ‘Che significa questo rito?’. Voi direte loro: “È il sacrificio della Pasqua per il Signore il quale passò oltre le case degli israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case” (Es, 12, 26-27). Il figlio è colui che interroga, che mette il padre in condizione di parlare a sua volta. Il figlio chiede al padre di dire la cosa più vera, più essenziale della sua stessa esperienza, e lo mette così in condizione di essere padre. La domanda del più piccolo innesca il racconto che sposta l’attenzione dal padre a JHWH. Dobbiamo riconoscere che la tradizione narrativa della fede è oggi segnata da una certa stanchezza: se i nostri padri ci hanno raccontato, noi raccontiamo ancora ai nostri figli? Ai genitori assenti sotto questo profilo corrispondono peraltro ragazzi assenti, assorbiti dai new media e dalle proposte culturali del nostro tempo o, ancora, segnati molto presto dall’agnosticismo della cultura circostante. Accade però anche che come nella Bibbia ci siano figli e figlie che lasciano i genitori e gli adulti interdetti. Pensiamo soltanto a Samuele che interpella per tre volte il sacerdote Eli (1 Sam 3) o di Gesù che sconcerta i genitori quando lo ritrovano dopo tre giorni nel Tempio di Gerusalemme (Lc 2,41-51). In molti modi, i figli e le figlie di oggi prolungano questa tradizione biblica, sconcertando genitori spiritualmente assenti e risvegliandoli con la radicalità delle loro domande. Emerge così quel complesso di Telemaco, efficacemente rilanciato dal prof. Recalcati, per il quale “siamo stati tutti Telemaco, abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa di lì ritornasse” (M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, 14). La trama della Bibbia è una sequenza di interrogazioni sulle domande fondamentali che lascia intravvedere la sequenza delle generazioni, laddove tutto è rimesso al padre e alla madre che possono trasmettere al proprio figlio/a della vita e del segreto della vita.

3. “Nell’oscurità, le cose da vedere brillano” (Anonimo XVII secolo)

Quando proveremo a raccontare quello che è accaduto – tra gennaio e maggio del 2020 – non potremo non cominciare da quanti – anche tra scienziati e politici  – avevano minimizzato l’epidemia del coronavirus, salvo essere tragicamente smentiti di lì a poco. Dovremo raccontare l’approssimazione dello Stato che ha inizialmente dichiarato lo stato d’emergenza per via della pandemia, per poi muoversi realmente soltanto a contagio avvenuto. Per non dire della Chiesa apparsa disorientata tra aprire o chiudere le chiese, sospendere o riprendere le messe, salvo fortunatamente trovare in papa Francesco l’interprete solitario di un ‘altro’ racconto, giocato non sull’abusata metafora della guerra, ma su quella della “tempesta sedata”. Mi riferisco, ovviamente, al “Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia”, seguito in TV da 8 milioni di telespettatori lo scorso 27 marzo, quando papa Francesco ha con-segnato un ‘racconto originale’, che ha colpito in profondità credenti e non credenti.

Vorrei fare di quella singolare e imprevista ‘statio orbis’ la forma di un racconto alternativo che ha guidato tantissimi ad attraversare il tempo sospeso del coronavirus. Ricorderete che papa Francesco, sotto la pioggia, da solo, è salito verso la gradinata di piazza san Pietro e commentando il brano evangelico della tempesta sedata (Mc 4,35ss) ha detto: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati”. Ed ha aggiunto: ”E’ facile ritrovarci in questo racconto”. Ecco il punto: un racconto drammatico, ma non apocalittico è diventata la chiave di una diversa interpretazione della realtà. Un’immagine, un’idea, un sentimento si sono rincorsi nel vuoto apparente del colonnato del Bernini: la barca, il timone e la croce.

L’immagine della barca squassata dalle onde è diventata metafora della vulnerabilità della nostra generazione che si era immunizzata da simili disastri con “quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità”. Di conseguenza: ”Con la tempesta è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ‘ego’ sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli”. “Stare sulla stessa barca” è stata questa la scoperta di questa esperienza scioccante che non avevamo pianificato e che ci ha sbalzato dalla routine. Nella dinamica del racconto stare sulla stessa barca è radicalmente diverso dallo stare in guerra, dove i fronti sono dichiaratamente contrapposti. Qui si è subito chiarito che l’epidemia non solo attraversa le frontiere, ma non conosce distinzioni sociali e culturali. Anche se non è come “la livella” di Totò perché il virus che arriva dappertutto non ci trova tuttavia uguali né per età, per condizione e per esposizione professione (cfr. Chiara Saraceno, oggi su Repubblica).

L’idea è quella della scelta che si impone in questo tempo di crisi. Non basterà che “passi la nottata”, se non ci decideremo una buona volta ad esercitare la nostra libertà. Questo tempo è un kairòs nel senso che è: “il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”. In un mondo che si costruisce sulle nostre teste, dove siamo ricondotti ad un sistematico esonero dalla responsabilità, in virtù di processi tecnologici che ci superano, questa insistenza sulla scelta è una boccata d’ossigeno o se si vuole una via di fuga.

Il sentimento è quella della croce: “nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore”. La croce, anzi il Crocifisso che era sotto gli occhi di tutti era quello di san Marcellino al Corso, colpito senza pietà dal temporale che infuriava su Roma. La forza del sentimento della croce è stata opportunamente spiegata: ”Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare”, ha concluso Francesco.

Al di là della sapiente regia liturgico-televisiva, l’efficacia del racconto è consistita in una lettura non scontata della pandemia, riportando alla luce una convinzione assai diffusa nel cristianesimo moderno, specialmente nella sua variante gesuita e cioè che “In obscuro miranda relucent”. A piazza san Pietro ha brillato una parola limpida, nuda ed essenziale che ha rischiarato le interrogazioni che salivano dai figli verso un padre. Così bisogna di nuovo imparare a raccontare.