Pastore di una terra “francescana” segnata da sisma e precarietà

La Chiesa di Rieti ha reagito con iniziative di solidarietà... e qualche progetto ambizioso. Il bene comune non è estraneo alla Chiesa, così come la Chiesa non è estranea ai problemi della gente. Il terremoto segna un “prima” e un “dopo”, per le sofferenze inferte a una popolazione già provata.
24-03-2018

(di Marco Roncalli) Dalla “madre di Roma”, ovvero dalla capitale a Rieti. Dagli alti uffici della Cei a un antico palazzo già residenza papale. Vive e lavora qui da due anni e mezzo – anche se è facile trovarlo in ogni angolo della sua tribolata diocesi – il vescovo Domenico Pompili. Nella città chiamata “l’ombelico d’Italia” (definizione che interpreta non «come un guardare tutto a partire da sé stessi», bensì come «un essere relazione e fatti per la relazione»), Pompili è arrivato il 5 settembre 2015, avvertendo un carico di attese sulla sua persona. Cinquantacinquenne, frusinate di Acuto, ordinato sacerdote nel 1988, giornalista, segretario del vescovo di Anagni Alatri, Luigi Belloli, e direttore dell’Ufficio per le comunicazioni sociali sino al ’99 (e al contempo parroco a Vallepietra, in provincia di Roma), dal 2000 al 2006 don Domenico ha svolto anche il compito di vicario episcopale per la pastorale e assistente dell’Azione cattolica diocesana, nonché il parroco di Alatri. Tutto questo sino alla nomina – alla fine del 2005 – ad aiutante di studio della Segreteria della Cei, seguita, nel 2007, da quella a direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, trovandosi ad accompagnare l’avvicendamento alla presidenza da Ruini a Bagnasco, e collaborando con tre segretari generali: Betori, Crociata e Galantino.

Poi, dopo anni a evangelizzare con i massmedia e a girare per tutta la penisola per incontri nelle diocesi, eccolo centodecimo pastore di una terra “francescana” al confine tra quattro regioni: «Pur essendo laziale, conoscevo poco Rieti e la sua provincia», confessa don Domenico. «È una realtà nata per aggregare luoghi diversi: questo dice la sua ricchezza, ma anche la sua fragilità. Un territorio che sconta ritardi rispetto alle infrastrutture – strade, autostrada e ferrovie –, dove la tutela ambientale da un lato ha preservato il paesaggio, dall’altro l’ha isolato. Un territorio esile che si spinge in parte sull’Abruzzo e il restante Lazio, poi verso l’Umbria e le Marche, con Amatrice e Accumoli che sono lì sull’estremità. E ora in cima ai miei pensieri».

Anche gli incontri con le persone degli uffici diocesani di tutta Italia sono state esperienze utili per il nuovo servizio: «Alla pastorale servono soprattutto dialogo, relazioni. Oggi, il problema della fede è legato alla mancanza di contatti veri con le persone, sempre più individualizzate, sempre con lo sguardo sul display. La prima necessità è “muoversi verso”, è finito il tempo del “devonovenire”. Questa è la fisiologia della comunicazione: non basta aver conoscenza del messaggio e del target, occorre capire quali relazioni attivare, sperimentandole». Così, gli è tornato utile pure il tanto lavoro fatto prima in parrocchia: «La gente non è distante,ma occorre stabilire contatti, altrimenti la figura del sacerdote la trovi in qualche cronaca (per lo più negativa), e non è mai un volto incontrato, com’era nell’Italia di qualche decennio fa, dove un prete con cui chiacchierare lo trovavi sempre».

Credo che il sisma dell’estate 2016, i tanti lutti, le macerie, l’abbiano obbligata a sovvertire anche i suoi programmi,e le rendano meno facile parlare del suo operato da quando è arrivato a Rieti.

«Complessivamente ho trascorso questi primi due anni e mezzo ad andare incontro alle diverse realtà, cercando di conoscerle: in particolare, le parrocchie disperse in tanti piccoli comuni. All’inizio, ho approfittato delle celebrazioni liturgiche, delle feste patronali, delle più disparate occasioni pur di creare contatti e “mappare” la situazione».

In quali situazioni è stato più coinvolto?

«Innanzitutto con il mondo del lavoro, perennemente in crisi, e che dai tempi di quella della Texas instruments – trasferita negli Anni ’70, lasciando senza panemille e duecento famiglie – ha visto impegnatala Chiesa locale. In tante altre situazioni sono già stato coinvolto nella ricerca di un dialogo su fronti produttivi, istituzionali, sindacali, per rappresentare le difficoltà di tante famiglie senza prospettive. Qui, negli ultimi dieci anni, si sono perduti più di settemila posti di lavoro se ragioniamo in termini di capi famiglie, una cifra che ha toccato un’ampia fetta della popolazione, causando sofferenze, lacerazioni, fughe, problemi».

Con quali altri mondi è venuto in contatto?

«In particolare, il mondo della scuola e della cultura: è vero, siamo in un territorio capace di proposte che resistono, di buon livello. Oggi, però, la situazione scolastica vive grandi disagi. Mi è capitato, ad esempio, di dare un aiuto economico a una scuola statale che non poteva riacquistare dei computer che erano stati rubati dai laboratori. C’è stata sorpresa per questa mia attenzione. A me, invece, è parso normale che la Chiesa si facesse vicina a questa necessità. Poi è accaduto che questo gesto abbia offerto la possibilità di un confronto con tanti ragazzi, che non ho trovato ostili, ma incuriositi. E anche ben disposti. E sono quei ragazzi che, anche qui come altrove, dopo la cresima spariscono, abbandonando la Chiesa. Un altro mondo importante con cui sono venuto a contatto è quello della salute. Una questione socialmente rilevante, perché in essa si nasconde la qualità della vita della gente, dei malati e degli anziani, anche quelli ospitati nelle nostre strutture; una questione altrettanto bisognosa di dialogo con le istituzioni».

Insomma, tanti ambiti oggetto di cura pastorale, che manifestano la sua solidarietà in un contesto molto precario, anche a causa del terremoto…

«Le conseguenze di quella tragedia sono trecento persone che non ci sono più, i cui nomi e storie abbiamo voluto fissare in un piccolo libro, Gocce di memoria, il nostro Spoon River per non dimenticarli. Lo dico con certezza: il terremoto segna un “prima” e un “dopo”, per il cumulo di sofferenze inferte a una popolazione già provata. E di cui, forse, non avvertiamo tutta la gravità, anche per la riservatezza delle persone di questi posti. Incontrando i parenti dei superstiti, avverto che l’elaborazione del lutto è lungi dall’essersi conclusa. E ciò introduce un clima di grande stanchezza, di maggior fatica. Paradossalmente, questo inverno appena passato è apparso più duro; quest’attesa più insopportabile».

Può spiegarci meglio?

«Le persone più anziane nelle casette capiscono che forse non vedranno mai la ricostruzione. Al dramma se ne somma un altro. Ma occorre guardare avanti. Insieme al dato umano va considerato, con lucidità, anche quello sociale: come reimmaginare questo territorio che ha sofferto tanto, dove la terra trema e dove le opportunità non si vedono. La gente se ne va, abbandona i centri storici, i paesini montani. Ma, almeno a chi vuole restare, occorre offrire qualcosa. La gente si chiede: perché restare, se non ci sarà lavoro? Occorre riflettere insieme. Il vero problema non è la rimozione delle macerie, la consegna delle casette o l’illusione del “ricostruiremo tutto com’era e dov’era prima…”».

E qual è, invece, il vero problema?

«È condividere rapidamente una strategia credibile di progetti. Ciò che conta davvero è ritrovare la linea dell’orizzonte che si vede poco, che non può attendere gli esiti degli avvicendamenti elettorali. E nel frattempo vivere, dove possibile, una normalità. Imparandoa convivere con questo nuovo stato di cose. Non dimenticando che, a dispetto di ogni sicurezza artefatta, la vita rimane un rischio».

La Chiesa di Rieti cosa sta facendo di concreto?

«Penso si possa dire che si sta muovendo, soprattutto con la Caritas che, nel frattempo, non dimentica l’esperienza dell’accoglienza dei migranti (qui sono oltre quattrocento) o la valorizzazione del lavoro artigianale attraverso le cooperative, incentivando ogni iniziativa per aiutare il maggior numero di persone. Stiamo, inoltre, cercando di riadattare spazi del Seminario per fare una Casa della carità, pensando soprattutto a una mensa da affiancare a quella di Santa Chiara che offre più di cento pasti al giorno. Sono quasi quattro milioni di euro gli investimenti che la diocesi ha portato avanti sotto forma di interventi nei comuni colpiti dal terremoto: aiuti singoli alle persone,ma anche ai Centri di comunità; il più recente, inaugurato a febbraio, è quello di Cittareale. E non sarà l’ultimo. Poi ci sono i progetti ambiziosi».

Quali?

«Ci sono voluti mesi, ma abbiamo firmato un protocollo che sancisce la condivisione di un progetto decisivo per far rinascere Amatrice. La Casa del futuro sorgerà dal recupero e rifunzionalizzazione dell’Istituto Don Minozzi. Le firme sono quelle dell’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, della Chiesa di Rieti, del Commissario straordinario per la ricostruzione, dei ministeri per i Beni culturali e l’Istruzione, della Regione Lazio e del comune di Amatrice. Tre, almeno, gli scopi: assicurare ospitalità soprattutto ai giovani; dare vita a un cantiere culturale legato ai valori della Laudato si’; avviare un centro per valorizzare la filiera della produzione agroalimentare locale. Come diocesi stiamo già collaborando con Slow Food, avvalendoci della competenza di Carlo Petrini, oltre che con l’architetto Stefano Boeri al lavoro per una sistemazione complessiva di un’area così vasta. Negli stessi spazi prevediamo anche un Museo della memoria, dove far tornare le opere d’arte messe in salvo lontano dal paese. Ci vorrà, però, qualche anno».

Certo, non se ne sta a guardare. Qualcuno dice che aspira a un ruolo di supersindaco… E c’è anche il precedente della lettera al presidente Mattarella sulla necessità di infrastrutture.

«Guardi, questo non mi toglie il tempo per pensare al mio clero (con un’età media in linea con quella nazionale; pochi preti sonosotto i quarant’anni, molti si avviano verso gli ottanta, e diversi preti vengono da fuori: polacchi, indiani, africani, sudamericani), alla situazione vocazionale (in questo momento con un unico seminarista che studia ad Assisi). Tantomeno sottrae energie alla cura delle zone pastorali, all’annuncio della Parola, ai rapporti con i preti e i laici che invito alla corresponsabilità e alla comunione, perché da soli non si fa nulla. La verità è che, in tempi di disintermediazione o apatia della politica e di individualizzazione dei singoli e dei processi, il vescovo deve mettersi in gioco su più fronti, rispondendo a tutti i bisogni, spirituali e concreti. Quanto alla lettera a Mattarella l’ho consegnata come pastore di questa diocesi, avendo messo attorno a un tavolo tutti i soggetti consapevoli della priorità di sottrarre Rieti dall’isolamento. L’ho fatto con un ruolo super partes, di mediazione riconosciuta, rivolgendomi all’interlocutore più alto, facendo da catalizzatore per aiutare le istituzioni in un momento di confusione. Il bene comune non è estraneo alla Chiesa, così come la Chiesa non è estranea a nessuna questione importante. E qui, la questione passa attraverso la restituzione a questo territorio, già importante via consolare romana, la sua vocazione di collegamento tra l’Adriatico e il Tirreno».

A proposito di strade, lei si è speso anche per la “Via del primo presepe”, condiviso da Autostrade per l’Italia e Regione Lazio.

«Sì, l’abbiamo sperimentato tra la fine dell’anno scorso e l’inizio del 2018. L’idea è una via che va da Greccio a Rieti, lungo la quale ritrovare lo spirito originale francescano nella rappresentazione della Natività. E, al contempo, scoprire i bellissimi borghi tagliati fuori dal turismo di massa, feriti dal terremoto. Tutta questa terra, ricca di pietà popolare, è stata attraversatada san Francesco e ci parla di un francescanesimo non ancora“normalizzato”.Viene, infatti, indicata come la Valle santa, con i suoi santuari importanti, da Poggio Bustone alla Foresta, da Fonte Colombo appunto a Greccio dove, nel 1223, durante la Messa della Natività, il Poverello riprodusse la scena di Betlemme, iniziando la tradizione del presepe. L’idea di questo cammino, oltre ai risvolti legati a un turismo religioso e non solo, vuole riportare all’intuizione originaria di san Francesco, a quella notte fatta di Parola e di eucaristia, di Vangelo sine glossa, comprendendo che occorre tornare lì e che alla proposta cristiana non bastano la paglia, i sentimenti dolciastri… Insomma, siamo un po’ stanchi di festeggiare il compleanno senza il festeggiato, che è Gesù».

Ultima domanda: si avvicina il Sinodo sui giovani, lei già negli anni scorsi a gennaio ha dedicato loro un meeting. Con quali finalità? E come fanno i suoi preti a mettersi in ascolto dei giovani se spesso sono così difficili da raggiungere?

«Larga parte dei giovani vanno all’università, stanno fuori Rieti e tendono a rimanerci. Con quelli che ci sono il dialogo è stato possibile dando loro la parola, ad esempio, sui temi dell’Amoris laetitia e della Laudato si’, che non sentono estranei e descrivono per esperienze più che per concetti. A noi compete ogni sforzo per creare le condizioni perché si trovino a loro agio nel dirsi, poi ascoltano anche quello che hai da dire loro. Il Sinodo dei vescovi più che “sui giovani” o “dei giovani”, dovrà svilupparsi “grazie ai giovani”. Tocca a loro raccontarsi: altrimenti, ci sarà non un dialogo, ma un assordante mutismo».