Pasqua

(At 10, 34.37-43; Col 3, 1-4; Gv,20, 1-9)
04-04-2021

«Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava». All’alba della Pasqua è una corsa a perdifiato. Appena raggiunti da Maria di Magdala anche Pietro e Giovanni si mettono a correre. Che cosa li ha messi in movimento? Chi è riuscito a stanarli dalla loro delusione? E perché invece noi siamo così fermi? A pensarci, ben prima della pandemia, la nostra via era già bloccata. E non mi riferisco alla crisi economica. Il virus ha slatentizzato il problema: la mancanza di respiro e il vivere col fiato corto. È accaduto che volendo immunizzare l’esistenza contro la sventura, il caso, la depressione, il dolore fisico, la morte, abbiamo finito con l’immunizzarla contro se stessa. Abbiamo smarrito una verità elementare e cioè che l’uomo non è qualcosa di ‘bell’è fatto’, il ‘bell’è fatto’ è incompatibile con l’amore e con la libertà’. L’uomo è sempre ‘incompiuto’, è un cantiere aperto, ‘pieno di promessa’, mentre noi ci siamo fatti avvelenare dall’idea che tutto è già fatto, predisposto, pianificato. Di qui la perdita d’innovazione e la ripetizione stanca dell’identico. La Pasqua irrompe per assicurarci che vivere è “abitare nella possibilità”. La qual cosa non dipende dalle sole nostre forze.

«Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette». Non basta essere intelligenti, occorre esser geniali. In che senso Giovanni è geniale, al punto di “vedere e credere”?  Genio  viene da gignere, che vuol dire ‘generare’ ed indica lo spirito che assiste l’uomo dalla nascita alla morte ispirandone le azioni. E’ geniale chi con un colpo d’occhio coglie l’insieme. Come Giovanni che scorgendo il sudario piegato da un lato intuisce l’enormità della resurrezione. Il credente non è uno che pensa ‘positivo’, ma uno che sa vedere e amare le cose create non chiuse in sé stesse, come puri oggetti.Si tratta di: «Vedere un mondo in un granello di sabbia/ e un cielo in un fiore selvaggio./ Chiudere l’infinito in un palmo di amo/e l’eternità in un’ora» (W. Blake).

«Non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti». Si può vivere senza pensare, oppure si può afferrare il quotidiano senza curarsi del non-senso e tirare a campare. Oppure si può restare in attesa della salvezza che è qualcosa di più della guarigione. E non consiste nello stare con le braccia conserte ma nel tendere verso qualcuno o qualcosa che si trasforma in cura, dedizione e impegno. Questo è l’augurio di Pasqua: che non ci abbandoniamo alla “dittatura dell’algoritmo” che ci dice cosa fare, né andiamo avanti a forza, ma ci apriamo alla vita con la fede cristiana.

Come scrive E. Dickinson: «La fede è il ponte senza arcate/che immette ciò che noi vediamo/ nella scena per noi ancora invisibile». Ciò che è al di là, infatti, è «invisibile, come la musica/ma forte, come il suono».