Omelia per la celebrazione della XIX domenica per annum (B)

1 Re 19,4-8; Sal 33; Ef 4,30-5,2; Gv 6,41-51
12-08-2018

Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Fa un certo effetto ascoltare Elia, l’intrepido profeta del monoteismo, che sembra arrendersi alla stanchezza e al disincanto. Non ci si pensa mai abbastanza, ma anche gli adulti vanno in crisi ad un certo punto. Complice anche l’orologio biologico, ci si stanca degli altri, di se stessi, di Dio. E si finisce per congedarsi con la sensazione di aver combinato poco o nulla, di stare sprecando tempo ed energie. Accade così che il campo è reso ostaggio da una serie di malumori che prendono la forma dell’asprezza, dello sdegno, dell’ira, delle grida e della maldicenze, con ogni sorta di malignità, come scrive Paolo ai cristiani di Efeso.

Fortunatamente a questa condizione fa da contrappunto la figura giovane di Gesù di Nazareth che di fronte alle mormorazioni degli ebrei per la sua pretesa di essere ‘il pane disceso dal cielo’ non indietreggia. Gesù è sempre giovane come Dio. Non tanto a motivo della sua condizione cronologica, ma perché mostra di avere una consapevolezza che viene da lontano e va ancora più lontano. Il giovane è colui che ha sogni davanti a sé e rischia per poterli realizzare. Si diventa vecchi quando ci si arrende alla realtà e si finisce per mettere i remi in barca. C’è troppa gente che va in pensione troppo velocemente dalla vita e finisce per ingrossare le fila dei ‘mormoratori’ che sui social come sulla strada hanno sempre qualcosa da rimproverare agli altri. Mentre in realtà, sono dei falliti che finiscono per soccombere alla loro mediocrità.

Il Maestro afferma di sé: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”. Non solo ribadisce che Lui sa chi è Dio perché viene da Lui, ma chiude con due affermazioni. “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Per la prima volta compare la parola ‘carne’ che fa riferimento al dono che Gesù fa di sé a partire dalla sua umanità. E ci dice due cose. La prima è che avere fede significa andare oltre quella percezione di Dio che risponde solo agli istinti fondamentali dell’uomo. L’uomo non si esaurisce in questi e la fede affonda le sue radici sempre oltre il materiale. La seconda verità è che il senso della vita dipende dalla sua capacità di donarsi. E qui sta la forza per riprendere il cammino nonostante le tante smentite della realtà, la piccolezza di certi individui che non vanno al di là del proprio naso. Questo significa diventare ‘buono come il pane’, che tutti possono afferrare trovandovi la forza per andare avanti.

Così la fatica di vivere che diventa stanchezza si trasforma in una nuova giovinezza che a dispetto dell’età fa crescere tutti.