«Siamo come chi naviga in mezzo a scogli su fragile barchetta». Non credo che don Bosco pensasse solo a se stesso. Di sicuro, caro Paolo, puoi sentirti tranquillamente chiamato in causa. Tu sei «la fragile barchetta» e ne sei consapevole. Non sei stato forse tu a scegliere l’intenso brano dell’apostolo Paolo che dichiara: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza?». Per giungere ad una affermazione paradossale: «Quando sono debole, è allora che sono forte». La forza della barchetta sta proprio nella sua fragilità. Il suo destino è legato alla sua capacità di abbandonarsi all’acqua del mare, evitando di infrangersi tra gli scogli. Questa misura minima del sé contrasta fortemente con la sbornia da autoaffermazione che la nostra mentalità di oggi diffonde a piene mani. Chiunque si percepisce come l’ombelico del mondo e pensa che tutto ruoti intorno a sè. Confessare di essere una fragile barchetta non dispone alla rinuncia e all’isolamento, ma predispone ad uno sguardo più realista, che fa emergere la nostra unica possibilità, e cioè la grazia invece della semplice necessità. Che significa in concreto? Vuol dire che prima e a prescindere da quel che dobbiamo essere c’è la vita che ci precede e fortunatamente ci segue. A noi tocca di assecondarne il ritmo. Come un abile surfista, che sfrutta i venti ed orienta con il suo corpo la direzione di marcia.
Anche tu, caro Paolo, hai percepito che i talenti, che a te non mancano, sono importanti, ma è altro ciò che spalanca l’orizzonte e spinge a non arenarsi nel mare quando è piatto come una tavola. Il mondo di oggi è tristemente piatto senza sporgenze, immobile e, per di più, annoiato. Si intuisce che ci vorrebbe un colpo d’ala, che ci sarebbe bisogno di una folata di vento, di una energia improvvisa che gonfi le vele, ma poi a questa nostalgia non fa seguito che stanchezza e rassegnazione. Tu invece hai deciso di esporti a questa traversata sulla tua «fragile barchetta». Sai che come dice Friedrich Holderlin: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva». Sì, Dio è un pericolo che ci fa uscire in mare aperto rispetto alle nostre certezze formattate e ci invita a riscoprire il limite come la condizione per aprirsi a Lui e agli altri.
«Passare tra goccia e goccia sotto il temporale senza bagnarsi». Dicono che don Bosco avesse delle fobie, come la paura delle correnti d’aria e dei fenomeni atmosferici, a dispetto della sua energia e della sua audacia. Trae forse origine da ciò l’invito a «non bagnarsi» ma a «passare tra goccia e goccia». Fuor di metafora, il temporale sotto cui rischiamo tutti di rimanere affogati è quello di una condizione sociale e culturale non molto dissimile da quella evocata dal profeta Isaia. Si parla di miseri, di cuori spezzati, di schiavi, di prigionieri. A dispetto della ricchezza che è cresciuta in misura assoluta, non è diminuita la diseguaglianza anche nei nostri Paesi europei. Si moltiplicano le situazioni di sofferenza umana e di infelicità tra le persone. Perfino gli schiavi non sono scomparsi, sia pure travestiti dentro sofisticati processi che occultano lo sfruttamento e la tratta delle persone. Per non parlare dei prigionieri che sono tutti quelli che hanno smarrito la libertà e si sono costretti dentro vite anguste e impossibili.
A te, caro Paolo, è chiesto di avvicinare tutte queste situazioni senza lasciartene sopraffare, ma non senza coinvolgerti. Il prete deve star dentro e non può limitarsi a stare a debita distanza. Deve poter entrare da vicino se vuoi capire ed aiutare. Di qui l’abilità richiesta di «passare tra goccia e goccia», cioè di tornare ad incrociare ognuna di queste condizioni cui portare il lieto annuncio. Solo così Dio potrà rivendicare la causa dell’uomo, che è quello che più gli sta a cuore. E’ paradossale che il tramonto di Dio abbia coinciso con quello dell’uomo e quello dell’uomo con quello del prossimo. Siamo dentro una china scivolosa, che ci porta a non sentire l’altro, a non percepire la voce degli afflitti. Essere preti vuol dire condividere la fatica di essere uomini e donne, non stando alla finestra ma scendendo per strada, condividendo il giorno e la notte, nella consapevolezza che «separarsi per non sporcarsi con gli altri, è la sporcizia più grande» (Lev Tolstoi), come ha ricordato papa Francesco.
«Il mondo attuale ha bisogno di vedere le opere per credere alle parole e alle intenzioni». Non pensare caro Paolo che don Bosco si riferisca qui tanto ai grandi oratori e alle imponenti strutture che sul finire dell’Ottocento umanizzarono la periferia di Torino. Penso che non gli fosse estranea la conoscenza del vangelo appena proclamato, da cui si ricava che le opere del credente – che abbandona la paura per credere al crocifisso risorto – sono la gioia e la pace. Lasciar trasparire queste due qualità è la strada anche per compiere la missione di «rimettere i peccati», che significa la liberazione dal male e da quanto sfigura la nostra umanità. Specie nella direzione dei più giovani. Non si tratta di una ‘scelta di classe’… anagrafica, ma di un atto di responsabilità, che solo garantisce la trasmissione della fede. Diffido come te delle facili etichette sui giovani di oggi. Ad ogni buon conto, senza i giovani il Vangelo cessa di essere contemporaneo e perciò incontrabile. La giovinezza decide della tenuta della fede anche oggi. Con loro e per loro dobbiamo inventare di tutto per arrivare a scoprire che la gioia e la pace sono, in realtà, l’altro nome di Dio.
Buon cammino, caro Paolo!