Omelia in occasione della veglia di preghiera per la Giornata dei Missionari martiri e la Giornata Mondiale della Gioventù

(Rom 5,1-5; Sal 116; Gv 4,28-30. 39-42)
24-03-2018

«Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza». Così Paolo descrive il credente che non fugge, ma affronta le tribolazioni, cioè le contraddizioni della vita, e ne fa un trampolino di lancio verso la speranza. Tutto il contrario del nostro abituale atteggiamento che fugge le tribolazioni e finisce per entrare nel loop della depressione. I monaci di Thibirne no. La loro vicenda ci dà a vedere un’altra reazione che, per quanto sembri una sconfitta, alimenta la nostra fiducia. Il film che abbiamo visto è stato accusato di essere reticente sull’Islam, anche perché le indagini successive hanno rivelato che fu probabilmente l’esercito algerino ad inscenare il sequestro, salvo poi accusare di tutto il mondo della Jihad (“guerra santa”). C’è stato pertanto chi ha bollato il film di irenismo, cioè di essere falsamente dialogante con il mondo mussulmano, rendendo così inutile il sacrificio dei 7 cistercensi. Ma, in realtà, proprio la testimonianza di questi “uomini di Dio” chiarisce che la missione non consiste nell’elaborare una interpretazione dei mali presenti, ma nel farsi concretamente prossimi alle persone in difficoltà. Di qui un’indicazione per noi. Di fronte al mondo la questione è se starcene a distanza oppure coinvolgersi, a rischio di rimetterci le penne. Il ‘missionario’ non è uno stratega che vuol rigirare il mondo come un petalino, ma uno che ‘tocca’ il mondo in un punto minuscolo e ne allevia il dolore. Non gli interessa altro che questo, anche se può venire strumentalizzato. Così hanno fatto tutti i martiri, da Cristo fino alla consigliere municipale di Rio uccisa l’altro giorno.

Il missionario è concreto, cioè lontano mille miglia da chi bonfochia sul divano, magari di fronte ad un tablet, e schioda dalle nostre paure e dalle nostre pigrizie. Chiede concretamente a ciascuno di fare tre passi: ‘un passo in basso’, uno ‘verso l’esterno’ e uno ‘indietro’. “In basso”, come Maria che assorbe come una spugna la parola di Dio e avverte la sua piccolezza, di fronte al mistero di Dio e della vita. Se manca questo passo in basso si rischia la vanità e la pretesa. Quindi, “il passo verso l’esterno”: ci vuole qualcosa da fare per tradurre le idee in ‘realtà’. Senza rispondere ad un bisogno concreto ci si isola e si finisce per essere degli «eunuchi dello spirito» (M. Rosin). Infine, c’è “il passo indietro” che vuol dire recuperare umiltà e dedizione per arrivare ad una fede non più a parole, ma concreta. «Non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo». Così viene detto alla Samaritana che era stata la missionaria. Non si arriva a Dio senza un personale rapporto con Lui. Il resto è solo conseguenza.