Omelia in occasione della V Domenica di Pasqua (Anno B)

(At 9, 9,26-31; Sal 22; 1 Gv 3,18-24; Gv 15, 1-8)
29-04-2018

«Io sono la vite vera». Se nel Primo Testamento e in tutta la tradizione profetica è Dio ad avere una vigna, che simboleggia Israele; qui Gesù afferma che lui stesso è la vite. E noi siamo i tralci. Come a dire, che tra l’uomo e Dio scorre la stessa linfa vitale. A noi è chiesto di accorgercene e lasciarsene trasformare. Per evitare di fare – ricordate la nota favola dei nativi americani? – come quell’aquilotto che precipitò nel pollaio e visse tutta la vita pensando di essere un pollo senza mai spiccare il volo. Salvo accorgersene un giorno vedendo per un attimo in cielo sfrecciare un aquilotto. Ma era ormai troppo tempo che razzolava a terra. Essere “figlio di Dio” è una scoperta che fa cambiare la percezione delle cose. È questo il dono che sta per ricevere vostro figlio. Come Alfie che è morto ieri. Non era un problema giuridico e neanche una complessa questione degenerativa. Ma – come ha detto il papà – «un gladiatore che ha spiccato il volo verso il cielo». Quando l’uomo perde questa consapevolezza viene meno anche la sua dignità e la sua bellezza. È impressionante il fatto che mai si sia sentito parlare così tanto di depressioni e di suicidi anche là dove sembrava che ci fosse tutto per poter essere felici.

Si capisce perché Gesù aggiunga subito dopo: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanente in me». Rimanere è l’accorato appello del Maestro ai suoi. Come quando disse loro: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6, 66-67). La domanda rivela un malessere profondo. Noi esitiamo a restare, ma così il nostro diventa un andare senza mai alcun approdo. Tutto scorre senza capo né coda, avendo la percezione di un girare a vuoto, dove si è perso il centro. È la sensazione di chi ha l’impressione che la vita gli sfugga di mano, giorno dopo giorno, senza la possibilità di orientarla in modo costruttivo e positivo. Rimanere è necessario quanto andare perché senza questa relazione con il flusso vitale ci si stanca e ci si ferma.

Ecco perché Gesù conclude: «Senza di me non potete far nulla». Non è presuntuoso uno che dice così? Verrebbe da pensarlo, se non fosse che l’esperienza conferma che senza essere uniti a Lui rischiamo di disperderci e di diventare un tralcio secco, che non porta frutto. Riuscire nella vita non è riempirsi di foglie senza frutto, ma produrre frutto, cioè lasciar emergere quel grappolo gustoso che dà gioia e produce il vino della festa. Se è vero che la linfa che scorre nelle nostre vene è l’amore di Dio, allora il frutto è chi genera vita e gioia. Come diceva Camus: «c’è da vergognarsi ad essere felici da soli».