Omelia in occasione della Solennità di Santa Barbara, vergine e martire Patrona della Città e della Chiesa di Rieti

Cattedrale di Rieti
04-12-2024

Eccellenza Signor Prefetto, Signor Sindaco e Amministratori locali,
distinte Autorità civili e militari,
carissimi fratelli e sorelle tutti,

assieme ai Confratelli Presbiteri e Diaconi, questa sera, nella nostra stupenda Cattedrale la cui bellezza viene via via sempre più in luce grazie ai lavori che ancora continuano, mentre contempliamo le meraviglie operate dalla Santissima Trinità nella giovane vita di Barbara, vorrei ci accompagnasse come una musica di sottofondo, assieme alla Parola di Dio, il “non lasciatevi rubare la Speranza” che il Santo Padre Francesco sin dalla Evangelii Gaudium generosamente ci ripete e che ci accompagna alla celebrazione dell’Anno giubilare entro cui stiamo per entrare appunto come Pellegrini di Speranza.

Sono tante le crepe di questo nostro mondo e nonostante i falsati tentativi di lifting a molti livelli dobbiamo con onestà ammettere che spesso il male, oggi come ieri, non è poi così banale come lo si vuol far credere. Nonostante il gesto ostinatamente grazioso della giovane martire travalichi i secoli non di meno ci appare, in senso contrario, la bruttura del gesto imposto rovinosamente dal padre su sua figlia!

Della nostra Santa Patrona, che ha bagnato col suo sangue la nostra terra sabina, resta illuminante e provocatorio il suo essere donna, giovane credente e laica. Assieme a Vittoria e Anatolia risplendono ancora oggi come segno di fierezza per il nostro popolo. In un tempo di passioni tristi e di adulti accartocciati la giovane Barbara continua ad affascinarci perché, lei per prima, forte delle parole di Gesù, prendendo la sua croce e seguendo il suo Sposo, ha trovato la strada maestra, il tesoro prezioso, la perla per cui val la pena perdere addirittura la vita per ritrovarla custodita in Dio anche oltre questa vita.

La vita di Cristo è stata per lei la vera torre nella quale nascondere la sua vita, in un amore più grande di ogni infedeltà e cattiveria. Quella torre ancora oggi racconta un permanere in quella parola degna di fede che l’Apostolo Paolo ha fatto risuonare nella nostra Assemblea: “Se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (ll Lettura). I Santi non sono dei turisti religiosi e prima ancora che persone radicali sono anzitutto dei cristiani radicati in una Parola, quella di Dio, che mette le ali alla vita anche se ti dovessero tagliare la testa, disegna orizzonti anche lì dove si chiudono umanamente tutte le possibilità. Sono le ampie radici che permettono agli alberi più agevolmente di poter svettare e di resistere alle tempeste.

Il Vangelo continua a ripeterci parole nette e chiare, dal sapore inconfondibile e tagliente. Esse affondano la loro forza profetica e attingono la loro linfa salutare alla Pasqua di Gesù, vero grembo della Speranza, più forte della morte. E Colui che ha portato la croce, paradossalmente, è diventato portatore di speranza per tutti, specie per i tanti disperati della storia. Questa speranza raggiunge tutti noi attraverso la testimonianza luminosa dei Martiri che più di tutti sono i cantori della Speranza.

Ma cosa significa “prendere ogni giorno la propria croce”? Non si inventa la croce. Nemmeno la si cerca. Ci viene incontro vivendo, soprattutto se scegli uno stile di vita diverso da quello dominante in cui sovente si cade preda di un interesse, di un calcolo o di una passione. E non c’è ambiente umano che sia al riparo da questi pericoli.

Prendere la propria croce è resistere, senza incattivirsi. È resistere, con onestà e integrità morale, ad un modo di intendere la vita che ci vuol far sentire a tutti i costi l’ombelico del mondo, protagonisti a tutti i costi, magari cancellando l’altro dal nostro orizzonte e da quello degli altri anche con un certo modo di pensare e di operare, fino a eliminare la loro vita in modi subdoli e artefatti. È ciò che sta accadendo in troppe parti del mondo in questi mesi e in questi giorni. È una violenza esponenziale, omicida, che nell’edizione rivista e aggiornata dei tanti Dioscoro che non guardano in faccia nessuno, persino la propria Barbara, i propri figli, continua a mietere troppe vittime dinanzi allo sguardo normalizzato e normalizzante di quasi tutti. La vicenda di Barbara ci riguarda, oltre ogni devozione, ed impone a noi tutti un sussulto di coscienza collettiva oltre che personale.

Prendere la propria croce è portare su di sé la misura dell’amore, dell’amore più grande che è sempre smodato ma non fa mai male al prossimo, nemmeno in nome dell’amore stesso e che si traduce in scelte di riconciliazione, di pace, di perdono sincero.

Prendere la propria croce è continuare a seminare anche quando il raccolto non sembra ripagare la propria fatica. È il martirio quotidiano di tanti, di genitori, di educatori, di consacrati, di uomini e donne delle istituzioni, di tante persone giuste che disegnano percorsi e strade di vita e di cura, di educazione, di alterità e pacifica convivenza, rispettando la persona e le persone, tutte e ciascuna, altrimenti non vale!

Prendere la propria croce è – per dirla con don Tonino Bello – mostrare il potere dei segni a quanti sanno mostrare solo i segni del potere.

Con voi io, vostro fratello Vescovo, desidero chiedermi: in Nome di Barbara quali segni può offrire la Chiesa, la Città, i tanti uomini e donne di buona volontà per un futuro carico di speranza? Portare la propria croce (senza scaricarla sugli altri in maniera maldestra e furba…) è generare speranza, è aiutare la speranza a non allontanarsi. Chi resta a guardare (e a giudicare) pecca gravemente di omissione.

Negli interrogativi che spesso serpeggiano nella nostra Città si corre facilmente a trovare il colpevole, a gettare un fascio d’ombra sugli altri, a stigmatizzare situazioni e persone spesso in nome di un ideale di vita tranquilla-di città tranquilla che non sarà mai possibile se non ci si compromette in prima persona. Diceva bene Martin Luther King: “Non mi spaventa il rumore dei violenti, ma il silenzio degli uomini onesti”. È tempo di uscire tutti quanti, ammettendo anche la fatica che questo comporta, dalle proprie comfort zone; non si può pretendere senza dare…

Forse Dioscoro non ha mai ascoltato sua figlia e l’amore per Dio che la animava, centro unificante di ogni scelta. Non si è mai seduto accanto, non si è interessato a lei, ai suoi sogni. Dioscoro era troppo autocentrato, innamorato solo del suo potere e della sua immagine. L’intrepida fortezza che contempliamo, invece, nella figlia ci fa intuire secondo moduli originali pagine intense, un prolungamento mai consumato di pagine del Cantico dei Cantici che vergini e martiri, uomini e donne di buona volontà, continuano a scrivere oggi non meno che ieri a dispetto di chi dice che tutto è sempre e solo vanità.

La Patrona della Città e della Chiesa di Rieti ispiri a tutti di rimetterci in gioco per un bene più grande, scendendo in campo, donando le energie migliori, facendo dell’amicizia sociale il perno attorno a cui far gravitare i giorni e i sogni di tutti gli uomini e le donne che vi abitano, dai più piccoli ai più anziani, dagli italiani ai migranti, dismettendo atteggiamenti di paura e di disinteresse, di indifferenza e di giudizio, capaci di generare le possibilità nuove di un domani non lontano in cui ci sia più spazio per i giovani, smettendo di credere inevitabili le loro partenze senza ritorno…

Portare la propria croce è, allora, vivere e scegliere la vita secondo Barbara, secondo il Vangelo e non secondo Dioscoro, anche se il Vangelo in lungo e in largo ci dà ad intuire che pure per Dioscoro c’è la possibilità di una conversione. Francesco col lupo di Gubbio ne è testimone e con lui molti altri. Dio non sogna di incenerire nessuno se non il male che ciascuno di noi è capace di fare.

Ma è il bene a dover sorgere ancora. E, allora, facciamolo sorgere insieme! Sarà il più vero impegno per questo Natale.

+ Vito Piccinonna
Vescovo di Rieti