Omelia in occasione della III domenica di Quaresima

(Es 20,1-17; Sal. 18; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25)
04-03-2018

«Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile». Le dieci parole, volgarmente chiamate “comandamenti”, hanno in questo incipit la loro chiave di lettura. Senza questa premessa – dove Dio ribadisce di essere stato Lui a tirare fuori dalla schiavitù – non si capirebbero le dieci parole, se non come una ennesima imposizione.

Al contrario, la Legge data sul Sinai non è un atto di costrizione, ma di liberazione e di creazione nuova. Ed è importante per noi, così allergici a qualsiasi forma di limite o di limitazione, questa novità, che deve perciò essere chiarita: Dio ha riscattato il popolo dalla schiavitù e ora confida come rimanere liberi.

Perché lo sappiamo bene: la libertà non consiste tanto nel sottrarsi alla presa degli altri – la società, la famiglia, le istituzioni, oggi dovremmo aggiungere la rete – ma si gioca anzitutto nella capacità di essere noi per primi liberi da noi stessi. Ecco perché il Midrash, che è un commento alla Scrittura, ci regala una perla preziosa quando dice: «non vi ho dato la Torah perché sia per voi un peso e la portiate, ma perché la Torah porti voi».

Insomma: si scrive legge e si legge libertà. Se pensiamo al sabato, per noi la domenica, è di tutta evidenza che, nella misura in cui è un giorno qualitativamente diverso, esso ci custodisce, custodisce il nostro equilibrio, i nostri rapporti importanti, la nostra interiorità. Non è dunque un vicolo, ma è ciò che in qualche modo tutela la nostra libertà.

Accanto alla Legge, il Vangelo ci offre uno squarcio sul Tempio, che per il pio ebreo era il luogo dell’incontro con Dio. Il Maestro compie un gesto inatteso e sconcertante, tirando fuori tutti i mercanti dal Tempio, con una forza e un vigore che lascia sbigottiti. Forse non si è lontani dal vero nel ritenere che dopo quella pasqua si cominciò a pensare di eliminare fisicamente questo giovane profeta, che aveva osato mettere in dubbio uno dei cardini della vita sociale e religiosa. In realtà Gesù non se la prende tanto con i mercanti – il mercato faceva parte di ciò che era necessario per vivere il culto – ma se la prende con quelli che sfruttano la propria posizione per gli interessi propri.

E aggiunge un elemento molto interessante: si sostituisce lui al Tempio, dicendo che il Tempio di Dio è lui stesso, il suo corpo. Ingenerando un malinteso, perché chi lo ascolta si domanda come potrà in tre giorni ricostruire il maestoso tempio di Gerusalemme. Ma a Gesù sta a cuore farci intendere che il tempio di Dio è lui, che i custodi del tempio non sono i guardiani che in qualche modo lo proteggono, ma quanti adorano Dio in Spirito e verità. Per il Maestro questi sono coloro che fanno della propria vita il tempio di Dio.

Ed effettivamente accade così quando ci sono persone che fanno del proprio corpo, della propria esistenza, uno spazio per rinnovare i rapporti, per dare alla vita nuove possibilità. Stamattina sono stato in una comunità per alcolisti e persone affette da diverse dipendenze. Quello che mi ha colpito, guardando i volti dei familiari e delle persone coinvolte, è come sia stato possibile che persone ormai condannate dalla vita – per questa sequenza interminabile di dipendenze che è uno sfascio dei rapporti più normali di ogni giorno – siamo state capaci di investire sul proprio dolore e di rimettersi in cammino, venendo fuori da questa schiavitù. Tutto grazie a persone che si sono messe al loro servizio, che hanno avuto il compito di guidarle nella fuoriuscita dalla terra della loro schiavitù.

Il Vangelo si conclude con una annotazione eloquente: «Gesù – commenta l’evangelista – non si fidava di loro, perché conosceva tutti […]. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo». Il tempio di Dio è ormai il nostro cuore. Cioè, se il nostro cuore è veramente libero, Dio – ci assicura Gesù – è nell’uomo. Ma non è automatico che l’uomo sia in Dio. Solo guardando e immedesimandoci nel Cristo crocifisso, che offre tutto di sé, senza alcuna contropartita, riusciremo a capire chi davvero siamo, e non chi crediamo di essere.