Omelia in occasione della Giornata Mondiale del Malato

Festa della Madonna di Lourdes
11-02-2023

Nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato, il Santo Padre, partendo dall’espressione del Samaritano all’albergatore che dice: «Abbi cura di lui». Ci invita a vedere la compassione come un esercizio sinodale di guarigione da vivere insieme. Perciò davvero le colonne della comunità cristiana, dalle prime pagine evangeliche – gli Atti degli apostoli in maniera particolare – fino ad oggi, sono coloro che normalmente la società, in diverso modo tende a scartare. Sono i più piccoli, i più fragili, gli ammalati in maniera particolare. Perché anche nel mistero della sofferenza che vivono, per la loro vicinanza al Signore ci raccontano qualcosa di Dio, ci raccontano qualcosa della vita, qualcosa di noi stessi che spesso ci sfugge o meglio preferiamo non vedere.

Forse scegliamo la parte del sacerdote e del levita, che vedono e passano oltre. Il Samaritano invece si ferma, entra in dialogo. C’è un dialogo a tu per tu con quel malcapitato. Poi quel dialogo giunge addirittura a diventare una “cura organizzata”, come dice il Papa nel Messaggio, perché ci si impegna ad affidarlo anche ad altri, al “dopo di noi”, perché non siamo eterni. Portiamo in ciò che facciamo la parzialità del bene che siamo capaci di vivere.

Il Samaritano è disposto a pagare di persona, non con i soldi degli altri, ma di sua tasca. Quel Samaritano è l’invito ad assomigliare il più possibile a Gesù, il Samaritano della vita e della storia. Ed è bello che il brano evangelico che abbiamo ascoltato sia quello del racconto della Visitazione. Ci mostra questo incontro tra due donne, Maria ed Elisabetta. Questo incontro di grembi. Il Vangelo, in fondo, non è altro che un racconto di incontri. Noi siamo esperti in riunioni, non di incontri. Sapete la differenza? Al centro delle riunioni ci sono le cose; al centro degli incontri ci sono i volti, le storie, le biografie, le persone. Perciò viviamo oggi insieme questo incontro diocesano attorno all’Eucaristia, sentendo la forza che da questo sacramento di carità promana per tutti quanti noi. È il sacramento della forza e della debolezza di Dio: l’abbiamo ascoltato nella prima lettura, quando il profeta intravede senza probabilmente saperlo le linee chiare della vita del Messia, la verità che dobbiamo portare scolpita nella nostra vita: “dalle sue piaghe noi siamo stati guariti”. Lo dirà anche l’apostolo Pietro nella sua Lettera: “dalle sue piaghe noi siamo guariti”. Non dai muscoli di Dio, Dio non ha muscoli! Dio ha le piaghe. Ed è a questo che non si arrendeva il grande apostolo Tommaso. Voleva vedere i segni della forza di Dio.

Siamo spesso arrabbiati anche noi, nell’ora della sofferenza e della prova, perché reclamiamo i muscoli di Dio e il nostro Dio non ha muscoli. Ha le piaghe e con le sue piaghe ci salva. Anche la Chiesa, guai quando pretende di mostrare i muscoli alla società, al suo interno, tra i diversi gruppi, tra le diverse diaconie. Così fallisce nel suo scopo. Ecco perché ci fidiamo di Maria, in questa prima processione del Corpus Domini. Appena ha ricevuto l’annuncio dell’angelo Gabriele è andata fuori da ogni logica, in cammino verso una montagna, verso una città di Giuda, a incarnare, a portare consolazione a sua cugina. Elisabetta è segno di tutti coloro che attendevano il compiersi delle speranze per Israele. Ed è bello questo incontro perché è all’insegna della benedizione.

“Benedetta tu, che hai creduto”. Elisabetta intuisce il vero grande segreto di Maria: la sua fede. E in questa fede Maria procedeva, camminava. Non le era tutto chiaro sin da subito. È avanzata anche lei nel pellegrinaggio della fede, perché a Nazareth aveva ascoltato l’arcangelo Gabriele che le aveva detto: “Avrai un figlio. Sarà grande. Sarà chiamato figlio dell’Altissimo, il suo Regno non avrà fine”. E poi invece sul calvario Maria questo figlio lo contemplerà piccolo, infinitamente piccolo. È solo la fede che ci fa scorgere anche nel frammento, anche nella piccolezza, l’abitare di Dio in mezzo a noi.

Ed ecco che quando Maria riceve dalla cugina Elisabetta questa bella esclamazione di forza, di fiducia, “Beata te che hai creduto”, Maria non incomincia a dire come faremmo noi: “Eh sì, quanti sacrifici che ho fatto! Mi è costato dire sì al Signore. Eh, quante ne ho fatte Io per la Chiesa, quante ne ho fatte io per Dio, quante ne ho fatte qua, se me ne vado io non si capisce più niente”. Lo pensiamo tutti quanti. L’unico che non lo dice è l’unico necessario che è Gesù Cristo, che resta apparentemente invisibile in mezzo a noi. E Maria canta questo Dio che da sempre volge lo sguardo verso i piccoli e i poveri, questo Dio di parte, questo Dio schierato, questo Dio che fa sprofondare i potenti, innalza gli umili dalle immondizie. Maria canta questo Dio perché ha un cuore nuovo. Non come Adamo ed Eva che pensavano quasi che Dio volesse far loro le scarpe. Maria ha il cuore nuovo, non come Sara che davanti all’annuncio di un figlio irride Dio; non come il popolo di Israele, che più volte si guarda indietro e dice, ma il Signore è in mezzo a noi, sì o no? Maria ha il cuore nuovo, perciò è capace di cantare questo cantico nuovo, che è il canto della Chiesa, che la Chiesa celebrerà fino alla consumazione dei secoli. Le parole del cantico di Maria dicono a noi di scegliere come sceglie Dio, di rimamere ancora oggi con i più piccoli, con i più fragili al centro.

Ringrazio tutte le realtà associative di volontariato, cattolico e non, che si dedicano alla cura degli ammalati. Ma non dipende da noi. Noi che camminando insieme ai fragili facciamo questa autentica scoperta: non siamo noi a portare aiuto e salvezza. Siamo noi invece a ricevere da loro la l’aiuto e la salvezza. Pensiamo di poter fare qualcosa per gli altri e invece sono questi altri a mostrarci il segreto della vita che spesso perdiamo nella quotidianità del nostro vivere, attratti da tanti falsi diari che poi svaniscono, soprattutto quando siamo a contatto anche noi con il mistero del dolore e della sofferenza.

Ho avuto la grazia di poter essere vicino negli ultimi mesi a dei genitori, Titti e Francesco, che hanno perso in maniera troppo veloce il loro piccolo Nico, di appena sei anni. Purtroppo, ho dovuto celebrare il funerale qualche mese fa. L’ho battezzato io sei anni fa questo piccolo. Davanti al mistero della sofferenza anche noi sacerdoti siamo tentati di fare gli avvocati di Dio. Nella mia piccola e povera esperienza accanto ai malati terminali che erano presenti nell’Hospice, alle tante situazioni di sofferenza, ho scoperto che forse il linguaggio più profondo è quello del silenzio. Si riceve così una domanda che dobbiamo cogliere sempre tutti quanti in punta di piedi da parte di chi soffre. A volte questa domanda non è detta, non è espressa come noi vorremmo. Questa domanda è semplicissima, ma ci inchioda: “Perché Signore?”. Non è un caso che il figlio di Dio sia morto anch’egli un giorno con una domanda sulle labbra e nel cuore: “Perché?”. Non era solo il suo “Perché”, non era solo la sua domanda, era il “Perché” di Titti e di Francesco, e il “Perché” di Eros, e il “Perché” di tanti, e il “Perché” di tutti quanti noi quando la vita si fa vera e noi nella verità cerchiamo di viverla e di compierla.

Ma da soli non ce la faremo, perciò ci sentiamo capaci di stare qui davanti all’altare per l’intercessione di Maria che, capofila di questo popolo dei credenti, del popolo degli umili, ci invita ad avere fiducia e ad affidarci anche quando le risposte umane non arrivano. Siamo certi di poter rimanere lì e coltivare sempre comunque una speranza che non ha nulla a che fare con l’illusione che a volte noi stessi o altri diamo alla nostra vita. Facciamoci ministri di speranza, soprattutto per i tanti che non hanno a chi affidare la loro vita.

Oggi il Signore mette ciascuno di noi, in punta di piedi, sulla breccia, per essere questo piccolo segno di speranza. Il cristiano non è un eroe. Dio non ci giudicherà sui quintali di cose fatte. Se avrete dato anche solo un bicchiere di acqua fresca nel mio nome a uno di questi piccoli, perché mi appartiene, avrete la ricompensa eterna. Ci doni il Signore di stare nel mondo nella storia con il cuore del buon Samaritano, che riconosce quanti si sono curati di lui ed è capace a sua volta di prendersene cura. Solo così non solo la Chiesa, ma anche la società cambia e diventa finalmente umana. Che poi l’unico modo per sentirsi degni di Dio.