Omelia in occasione della commemorazione di tutti i fedeli defunti

Commemorazione di tutti i fedeli defunti (Gb 19, 1.23-27a; Sal 26; Rom 5, 5-11; Gv 6, 37-40)
02-11-2015

«Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non da un altro». Giobbe non è un credente a buon mercato e tantomeno un credulone. Passa per essere la quintessenza della pazienza, ma la sua vera identità è la voglia di interrogarsi sul vero dramma dell’uomo e, cioè, il mistero del dolore che anticipa quello ancora più radicale della morte. La sua vicenda è una parabola dell’uomo che nel colmo del successo personale e familiare improvvisamente è visitato da sofferenze e da lutti. E vacilla sotto la pressione del male che sembra contraddire la sua fiducia nel Dio della vita. Come è noto, sua moglie, non senza ironia mista a cinismo, si fa interprete del malessere che genera lo scacco della sconfitta e della disillusione. Ma neanche i dotti amici che vogliono convincerlo di ricevere il giusto per i propri peccati schiodano Giobbe dalla sua incrollabile percezione. Dio non è contro di lui, anche se il male crocifigge l’uomo ogni giorno, al punto che egli stesso si chiede: «E perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?… Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro, che godono alla vista di un tumulo, gioiscono se possono trovare una tomba… a un uomo, la cui via è nascosta, e che Dio da ogni parte ha sbarrato?» (Gb 1, 21).

La vita segnata dalla morte è una domanda che non ci abbandona. Ne prendiamo coscienza quando siamo toccati nella carne. Ma resta un pungolo che solo ingenuamente possiamo scansare o censurare. La morte resta attaccata alla vita. E per quanto i progressi tecnici e la longevità umana siano cresciuti, l’appuntamento con essa è solo rinviato. Non si può vivere senza tener conto di questo limite. Anzi, la morte è la condizione per restare umani. Senza la sua presenza rischiamo di perdere il senso della realtà, di diventare disumani, cioè di vivere nell’attimo e di dimenticare la responsabilità verso le generazioni future. La morte è legata alla vita e solo chi sa interrogarsi su di essa evita il patetico rincorrere degli anni e si apre alla sapienza che fa del limite non la fine, ma il confine, cioè la soglia di una nuova possibilità. «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore!».

Questa speranza è solo grazia. Non viene da noi, ma solo da Dio. Per questo l’apostolo Paolo scrive: «la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». La vita ad uno sguardo umano resta schiacciata dalla sua fragilità. E allora si comprende che non è dalla natura che può venire la risposta. Non è da questo spazio storico che viene la possibilità di sperare. La possibilità è legata soltanto alla buona notizia che è Gesù Cristo, il quale «è morto per noi». Qui c’è la traccia della possibile risposta. Guardando all’esistenza storica del Maestro si scopre che egli ha vissuto fino in fondo la condizione mortale, non esclusa l’agonia e la lotta per morire. Ma quel che colpisce in lui è che ha vivificato la sua esperienza con l’amore fino a morire per il nemico. Dunque, non morte e vita si oppongono, ma amore e morte; solo l’amore è più forte della morte, secondo l’intuizione del Cantico dei Cantici. La sua morte vitale è la strada da battere se si vuol attraversare l’incubo della fine.

La certezza che si è sulla strada giusta ci viene anche dalle parole di Gesù nel discorso di Cafarnao. «Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

L’unica possibilità umana di eternità può essere dischiusa dall’amore. Come scrive Gabriel Marcel: «Amare qualcuno significa dirgli: tu non morirai». Nella finitezza del nostro amore noi possiamo così sperimentare un assaggio dell’infinità del nostro essere. Nel frammento dell’amore si tocca il tutto dell’amore. Così le parole del Maestro diventano concrete e affidabili. E ci spingono a seguirlo in vita e in morte.

Come oscuramente sembra presagire in una sua poesia un poeta del nostro tempo, che è nato cristiano ed ha vissuto come ha potuto, senza mai spegnere del tutto la speranza antica. Scrive Pier Paolo Pasolini in Frammento alla morte: «Torno a te, come torna un emigrato al suo paese e lo riscopre… Mi fai ora davvero paura, perché mi sei davvero vicina, inclusa nel mio stato di rabbia, di oscura fame, di ansia quasi di nuova creatura». Che il Signore ci conceda come Francesco, grazie alla fede, di sentirla pure come «sorella».