Omelia in occasione del Perdono di Assisi

Perdono di Assisi (Gal, 4,3-7; Lc 1, 26-33)
02-08-2016

«Ora un giorno, pieno di ammirazione per la misericordia del Signore in tutti i benefici a lui elargiti, desiderando che il Signore gli indicasse che cosa sarebbe stato della sua vita e di quella dei suoi frati, si ritirò, come spessissimo faceva, in un luogo adatto alla preghiera» (FF n. 363).

Nell’autunno del 1208 un gruppo di giovani “frati” guidato da Francesco (allora ventisettenne) entra nel villaggio di Poggio Bustone. Le fonti francescane narrano che dopo un periodo di preghiera, silenzio e penitenza, Francesco abbia avuto la certezza che tutti i suoi peccati fossero stati perdonati. Ha sperimentato il perdono, ha incontrato il volto della misericordia del Padre. Si è ritrovato semplicemente “figlio” e ne ha fatto la pietra su cui costruire la sua visione della vita e delle cose. È quanto ci lasciano intuire le parole di Paolo, nel momento in cui affermano che «quando venne la pienezza del tempo, Dio inviò il Figlio suo, nato da una donna,… affinché ricevessimo l’adozione a figli». E lo conferma il celebre passo dell’annunciazione lucana, dove l’angelo a una giovane donna dice: «Rallegrati, Maria». Per poi aggiungere: «Non temere Maria, poiché tu hai trovato il favore di Dio. Ecco, tu sarai incinta e darai alla luce un figlio e gli metterai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà proclamato Figlio dell’Altissimo». Scoprire la gratuità assoluta dell’amore di Dio può cambiare la vita a tutti noi. Quest’intima esperienza del perdono e della compassione accompagnerà Francesco tutta la vita e sempre caratterizzerà i rapporti suoi e dei frati “minori” con gli altri, si tratti di poveri, di ricchi, o di persone odiate e quindi emarginate. Quella di Francesco, è stata una grande “scoperta” in quel tempo, una scoperta che sconvolgeva gli schemi medioevali del perdono. Basta pensare che “la remissione dei peccati” era sì prevista, ma per i Crociati che morivano in battaglia! Oppure per i pellegrini che si recavano a Roma, a Gerusalemme o a Santiago de Compostela. Tutti gli storici che hanno scritto sulla figura di Francesco affermano che nella sua visione della vita e del mondo egli ha superato ogni forma di manicheismo. Non si può pensare che il bene sia tutto da una parte e il male tutto dall’altra. È una visione che diventa “escludente”, mentre tutto il Vangelo propone la via dell’inclusione. Possiamo quindi liberare l’altro attraverso la bontà e la compassione, come abbiamo detto, e tutti sappiamo quanta libertà interiore questo richieda. Ma, anche qui, c’è un punto di partenza dal quale non possiamo prescindere. Per Francesco infatti, in ogni persona abita un possibile ladrone e in ogni ladrone si nasconde un possibile frate. Ecco come svanisce la mentalità manichea. Questa era la sua grande e umanissima libertà, appresa dal Vangelo. Sembra che proprio qui, a Poggio Bustone, villaggio dove si rifugiavano i brigantelli della Valle reatina, dopo il suo tempo di preghiera, sia sceso tra la gente salutando tutti con le famose parole: «Buongiorno, brava gente!». Ai briganti non sarà parso vero. Ma solo così, con il Vangelo della misericordia, si supera ogni dualismo o tendenza manichea. Quando Papa Urbano II, nel 1095, indisse la prima Crociata, la premessa ideologica era chiara: i fedeli dell’Islam erano «gente turpe, degenere, serva dei demoni». L’Islam era il vero nemico da abbattere, era l’impero del male. Nell’iconografia e nella fantasia della gente comune si pensa ad un cavaliere armato ma santo che uccide il drago, l’Islam. È impressionante lo spirito di aggressività e di guerra che in quel tempo ha animato la chiesa e con il quale la chiesa stessa si è presentata al di fuori dei suoi confini geografici. E tutto questo per liberare “i luoghi santi”.

Come sappiamo, nel 1219 anche Francesco va verso i luoghi santi, ma non animato dalla cultura di guerra e di violenza che allora imperava in Europa. Cercherà, inutilmente, di dissuadere i Crociati e non avrà timore di incontrare il Sultano d’Egitto, che rimarrà sorpreso dal suo spirito fraterno. Sembra che Francesco amasse ripetere che gli islamici «sono nostri amici e li dobbiamo amare molto» (nella prima Regola).

Oggi un giornale titolava che «il Papa ora esagera» a proposito della guerra in atto, che però non è una guerra di religione, anche perché è possibile convivere con altri di differente religione. Dietro questa posizione c’è un’accusa di ingenuità, che è pari pari quella che veniva riferita a Francesco al suo tempo. Ma il perdono che oggi celebriamo ha come esito una diversa interpretazione anche dei fatti tragici che viviamo. Nessuna sottovalutazione del fenomeno terrorismo ci è concessa, ma neanche nessuna omologazione allo spirito del tempo.

Stare a Poggio Bustone oggi vuol dire rendersi conto che è chiesto anche alla nostra generazione di non fomentare dualismi e scontri di civiltà, ma trovare insieme la strada di un confronto alla pari, che riesca a tirar fuori dall’altro il bene senza riprodurre logiche mortifere, le quali sono appaganti sul momento ma contribuiscono a rendere il mondo un campo di combattimento. La preghiera che facciamo è quella di liberare il nostro cuore dal nemico e di restituire alla parola “avversario” il senso del diverso che va incontrato e insieme al quale va fatto un tratto di strada insieme.