Omelia in occasione dei festeggiamenti in onore di San Francesco d’Assisi

XXVII domenica del Tempo ordinario, anno C (Ab 1, 2-3; 2, 2-4; Sal 94; 2 Tm 1, 6-8.13-14; Lc 17, 5-10)
02-10-2016

«Accresci in noi la fede», chiedono gli apostoli al Maestro. E restiamo stupiti, perché ai nostri giorni una tale richiesta appare superflua e inutile. Che bisogno c’è mai della fede? E così si vive senza cercarla più, anche se poi si finisce per credere alle banalità: la fortuna, le stelle, la tecnologia. Sarà per questo che il Maestro sorprendentemente replica: «Se aveste fede quanto un granello di senapa, potreste dire a questo gelso: “Sra­dicati e vai a piantarti nel mare” ed esso vi obbedirebbe». Come a dire: non è questione di quantità, di più o di meno. Il punto è avere o non avere fede. Che non è una semplice forma di conoscenza, un bagaglio di nozioni, una serie di pratiche morali. È uno sguar­do diverso sulla realtà, che fa vedere tutto in un’altra prospettiva. Di fronte all’ingiustizia e alla violenza, al dolore innocente e al terremoto, o c’è la disperazione o c’è la fede. Ma è questione di qualità, e significa aderire, cioè consegnarsi a una Presenza, riconoscendo la propria limitatezza e la propria debolezza.

San Francesco, prima che un ambientalista ante litteram, un rivoluzionario sociale, un potenziale “eretico” da gestire, è stato semplicemente un uomo di Dio. Questo, e non altro, è il segreto della sua «perfetta letizia». Che non consiste in uno stato ipnotico di assuefazione al dolore, ma in una condivisione della passione di Cristo, che rende leg­gero e sopportabile tutto in vista della gioia che ci è promessa. «Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto», sintetizzerà il Poverello. Per questo è così decisivo imparare a credere anche ai nostri giorni. Perché la fede è leggera come un granello di senape, ma è forte come il seme che rompe la zolla per far sbocciare la vita. Allora com­prendiamo chi è veramente credente.

Chi crede è uno, anzitutto, che vede in anticipo, cioè un visionario; sa dove si va, ma non ne conosce tutte le strade: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia attendila, perché certo verrà e non tarderà» (Ab 2, 3). San Francesco, al di là di facili mitizzazioni, ha trascorso lunghi periodi nello scora­mento, nell’isolamento, nel disorientamento. Ma ha saputo attendere. Non ha abdicato a quello che aveva visto. Perché aveva una visione.

Chi crede, poi, diventa coraggioso e prudente allo stesso tempo, cioè supera la timi­dezza, come dice Paolo a Timoteo. San Francesco ha introdotto nella chiesa stanca e polverosa dei suoi tempi un fremito e una passione che non l’hanno più abbandonata.
Chi crede, infine, è libero e disinteressato. È un “servo inutile”, come Francesco, che ancora vivente accetta di essere sostituito nella guida dell’ordine, ma non smette di orientarlo e di provocarlo ancora oggi. Non importa che la fede sia tanta. Conta che ci sia. Che noi la si difenda dalle sue contraffazioni, per avvicinarci sempre più a Dio e agli altri. «Signore, conserva in me la mia poca fede».