Omelia del giorno di Natale

25-12-2020

Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Con queste parole del prologo di Giovanni, la chiesa da sempre festeggia il Natale. Quando però san Francesco volle rappresentare la nascita di Cristo chiese soltanto un po’ di fieno e un bue e un asino vivi, animali nominati unicamente dai vangeli apocrifi. Perché? Per rispondere bisogna rifarsi al simbolismo dei due simpatici animali che troviamo spiegato in un passo del grande Isaia (1,3): “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Mentre gli esseri umani, insomma non riconoscono Gesù come il Messia, il bue e l’asino riconoscono nel bimbo posto nella greppia il loro Signore. Gregorio di Nissa (394), interpreta così l’immagine del bue e dell’asino: il bue indica la legge ebraica, alla quale egli è legato come al giogo; l’asino è il simbolo dei pagani. Difatti, egli porta il peso dell’idolatria. Tra il bue e l’asino vi è il bimbo divino, che libera sia gli ebrei che i pagani dal loro giogo e dal loro peso. Anzi, diventa l’occasione per riscoprire la natura umana.

I due animali, infatti, rappresentano la natura istintiva ed impulsiva dell’essere umano. Chi reprime le proprie pulsioni e i propri istinti, chi vive solo con la testa, perché vuole pilotare e decidere tutto a partire dalle proprie possibilità, rimane straniero a se stesso, in lui non può nascere niente di nuovo. Abbiamo bisogno di far ricorso al nostro istinto di base: la paura e l’abbandono. In questi mesi abbiamo ritrovato questi sapori primitivi della vita che avevamo smarrito, sentendoci infrangibili e autosufficienti. E invece abbiamo sperimentato di essere fragili e bisognosi degli altri.

Va detto peraltro che la natura istintiva e pulsionale non è solo forza positiva, ma ambivalente. Il bue che procede guardando fisso davanti a sé e l’asino, che crolla sotto il peso che porta, sono comportamenti di vita che tutti conosciamo. Noi spesso percorriamo testardi la nostra strada senza guardare a destra o a sinistra. Andiamo avanti come automi e come Sisifo ci ritroviamo sempre daccapo. In questi mesi la nostra velocità si è infrante. Abbiamo imparato ad attendere una telefonata, una passeggiata. Adesso facciamo i conti con la perdita di tempo. E soprattutto con l’attesa. Ma questo dimostra che l’uomo è fatto per pregare cioè per attendere.

Questo Natale, dunque, ci farà bene, se vogliamo. Se ci aiuterà a riscoprire la natura dell’uomo: la paura e l’abbandono, ma anche l’attesa e la preghiera. Così ci sarà dato in dono la spontaneità dell’amore e la leggerezza dell’essere, di cui il bambino Gesù è il segno più convincente.