Non è qui / 3

(Marco 9,2-10)
11-05-2018

Premessa

Il racconto della trasfigurazione riportato dai Sinottici rappresenta un episodio-vertice, corrispondente alla scena del Battesimo. In Marco, Gesù viene proclamato il Figlio diletto (9,7). Questa volta, però, si tratta di una rivelazione fatta ai soli discepoli, in un momento decisivo e critico della vita pubblica di Gesù, cioè dopo la proclamazione messianica di Pietro e la rivelazione del destino di morte e glorificazione del Figlio dell’uomo (8,27-33).

La scena della trasfigurazione segue lo schema classico delle teofanie bibliche, ma sotto questa veste letteraria che cosa si nasconde dal punto di vista storico? Né Marco, nè gli altri, sono in grado di precisare che cosa avvenne, ma più che sulla cronaca è utile concentrarsi sul significato di questo incontro speciale con Gesù. E la cifra sintetica del fatto si ricava da quello che Pietro esclama a gran voce: «È bello per noi stare qui!» (v. 5), cioè l’esperienza della bellezza. Si tratta di una realtà che va oltre la verità e la bontà e si impone per il suo fascino irresistibile. Oggi siamo dentro un mondo brutto per tanti suoi aspetti, in cui sembra venir meno questa possibilità. Più che fermarci all’esterno, conviene concentrarsi sulla bruttezza interiore. Da cui nasce quella esteriore. Giacché, solo per fare un esempio, la crisi ecologica è solo il riflesso di una crisi spirituale. Ci sono indicatori innegabili: la mediocrità che avanza (la mediocrazia), il calcolo egoistico che prende il posto della generosità, l’abitudine vuota e ripetitiva che sostituisce la fedeltà vissuta come novità del cuore e della vita. Nessuna bellezza è triste come quella di chi dice di essere chiamato ad essere testimone dell’amore crocifisso e quindi apostolo della bellezza che salva. Ecco perché è importante sostare davanti alla trasfigurazione perché ci aiuta a ritrovare il gusto e il fascino della bellezza, cui tutti, soprattutto i più giovani, sono sensibili.

Lectio

Il testo, si diceva, va letto non tanto in chiave di “che cosa” è accaduto sul monte, ma piuttosto in chiave di “senso”, perché i generi utilizzati dall’evangelista sono chiaramente in funzione di illuminare la vita e non di soddisfare la curiosità. Si capisce chiaramente che accanto a tratti tipici dell’epifania (apparire, vedere, ecc.), della teofania (nube, voce, ecc.) e dell’apocalittica (le vesti bianche, la nube e la voce), Marco ha inserito motivi cristologici che puntano a comprendere il senso profondo della storia di Gesù e di coloro che si sono messi alla sua sequela.

Cominciamo la lettura.

«Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse soli sopra un alto monte, in un luogo appartato» (v. 2a). Quale sia questo alto monte non è dato saperlo anche se l’identificazione tradizionale vuole che sia il Tabor, che sorge in Galilea nella pianura di Esdrelon a 562 m. Altri ritengono si tratti del monte Ermon a 2800m.

«E fu trasfigurato davanti a loro» (v. 2b). Qui c’è il verbo al passivo per dire che l’azione improvvisa della metamorfosi non nasce da lui, ma da Dio. Cambiare forma vuol dire appalesarsi in forma diversa dal solito. Molte volte le persone ci appaiono scontate, piegate dentro i soliti clichè. Ci sono momenti in cui ci si appalesano in tutta la loro sconvolgente bellezza. È un’esperienza meravigliosa che a tutti credo sia stata concessa: quella di incontrare volti limpidi e radiosi, non per una emozione superficiale, ma per un segreto custodito nel profondo che disegna su quei volti tratti di straordinaria dolcezza e pace.

«Le sue vesti divennero sfolgoranti, bianchissime, tali che nessun lavandaio sulla terra saprebbe farle così candide». Ciò che colpisce i tre discepoli evoca una luminosità incandescente che fa dire all’evangelista una iperbole ingenua sul fatto che nessun lavandaio pulirebbe così bene le vesti. Si tratta solo di un modo per affermare la straordinaria iridescenza delle vesti di Gesù.

«E apparve loro Elia con Mosè, e stavano conversando con Gesù» (v. 4). La tradizione cristiana ha letto questa presenza come fossero i rappresentanti della legge e dei profeti, ma forse è stato trascurato il fatto che Mosè ed Elia sono profeti che hanno sofferto e, nella sofferenza, hanno fatto esperienza della salvezza di Dio. Nella tradizione ebraica, non solo Elia, ma anche Mosè è visto come il profeta perseguitato. Essi testimoniano la presenza del Dio salvatore nel destino di morte inferto dagli uomini ai suoi inviati. E, come Dio è stato presente nella storia di Israele, salvando i suoi profeti, così ora è presente nel destino di sofferenza di suo Figlio e dei suoi discepoli, liberandoli dalla morte.
“Pietro allora prese a dire: Rabbi, è bello per noi stare qui; facciamo dunque tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia” . Pietro con il suo inconfondibile tratto impetuoso e immediato dice quello che è capitato a tutti e tre di sperimentare. Un senso di speciale bellezza che si vorrebbe bloccare perché non finisca mai e si sigilli nell’istante estatico di questa singolare esperienza.

«Ma non sapeva che cosa dicesse, tanto erano presi dalla paura». Marco, quasi a voler scusare la gaffe d Pietro aggiunge questa notazione. Ma anche per ribadire la distanza della nuova esperienza rispetto al livello di comprensione dei discepoli, i quali reagiscono con spavento di fronte alla manifestazione del mistero di Gesù. Qui non è la paura, ma il timore che prende di fronte a quello che ci supera da ogni lato.

«E venne una nube che li avvolse, e dalla nube, una voce: Questi è il Figlio mio, il diletto, ascoltatelo». La nube e la voce sono simboli dell’intervento divino che spiega il senso di questa illuminazione repentina e provvisoria: il cammino di Gesù verso la morte, non è la rassegnata sottomissione a una fatalità storica, ma la rivelazione piena della sua vera identità. Egli apparirà come il Figlio fedele, che è in rapporto unico con Dio. L’amore e la libertà di Gesù esploderanno nella notte del Calvario. Per questo di fronte a tale evento non la contemplazione estetizzante del meraviglioso, né la paura paralizzante di fronte al divino, ma l’adesione piena e impegnata all’insegnamento di Gesù, è il compito che attende i discepoli.

«Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro di non raccontare a nessuno quello che avevano veduto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero la cosa per sé, domandandosi fra di loro che mai significasse quel risorgere dai morti». È interessante il colloquio con Gesù dopo la trasfigurazione: ordina di tacere e i discepoli si interrogano sul senso di questo divieto. Gesù impedisce di annunciare quello che hanno vissuto perché la luce deve ancora passare attraverso il buio della passione e solo alla fine esplodere con la resurrezione. Solo nella vita di ogni giorno bisogna imparare a vedere anche nel buio più fitto la luce di Dio. Solo quando questo è dato è lecito raccontarlo. Prima si rischia di fare un annuncio vuoto.

Meditatio

La bellezza di Gesù non è un semplice riflesso della sua prestanza fisica, né tantomeno della sua profondità temperamentale. È ciò che emana dalla sua donazione generosa, senza pentimenti e senza rimpianti, che si offre all’umanità, riscattandola da una visione ripiegata su di sé. È bello vedere un uomo libero da sé, pronto a spendersi per gli altri, capace di condividere fino in fondo il dolore, peraltro sempre inspiegabile. È la bellezza del Crocifisso di san Damiano che affascina e seduce Francesco. Ma anche la bellezza rude di Madre Teresa che intravvede nei corpi tumefatti dei poveri l’appello alla solidarietà.

Come fare perché si impari ad apprezzare questa bellezza, in un mondo che è ossessionato dalla bellezza? Beautymania è il titolo di un recente libro che descrive l’ossessione per la bellezza che coinvolge soprattutto i più giovani. Se ci lasciamo sagomare dalle attese indotte dalla pubblicità e dai media siamo a rischio.

Oggi il rischio è di lasciarsi imporre questo format della bellezza che produce tanti ragazzi frustrati e impotenti di fronte a standard sempre più esigenti che ci allontanano dalla bellezza autentica. Non si tratta di replicare misure, come l’agognata taglia 38, ma di essere se stessi, tirando fuori il meglio da sé. Vien da chiedersi: quali siano le condizioni, in un mondo consumista in cui sembra di poter comprare tutto col denaro, per non lasciarsi illudere dall’effimero e decidersi per ciò che invece vale e costa sacrificio? Come comprendere che la bellezza passa per una rigorosa ascesi del cuore e della mente?

Fare esperienza della Bellezza che salva: conversione e riconciliazione

La prima forma è quella di vivere il cammino della fede, specialmente nella preghiera personale e liturgica. Liturgia viene dal greco leitos, che significa popolo, e ergon, azione, opera: è dunque un’azione di popolo, un ‘servizio pubblico’ nel senso che implica un attivo e corale ‘prendere parte’. Non è una comunità effimera quella che condivide la liturgia, né il risultato di una convergenza di interessi: come scrive Florenskij, «Non abbiamo bisogno di alleanze artificiose, costruite su calcoli umani» (Bellezza e liturgia, p. 59). Come scrive Guardini, piuttosto, «la comunanza sta nei sentimenti, nei pensieri, nelle parole, nel dirigere gli occhi e il cuore alla stessa meta; essa consiste nel credere tutti alla medesima verità, nell’offerta tutti il medesimo sacrificio, ne, mangiare tutti lo stesso pane divino; nell’essere tutti stretti un una misteriosa unità da un unico Dio è Signore. Tra di loro però, come personalità determinate e concrete, non si usurpano reciprocamente il campo dell’intimità» (Guardini, Lo spirito della liturgia, p. 47).

Annunciare la Bellezza che salva

Trovare forme artistiche per esprimere la bellezza della fede anche per riconciliare corpo e anima.

Condividere con tutti la ricerca e il dono della Bellezza

Riuscire a produrre azioni e iniziative belle che suscitano il contributo di tanti senza tornaconto personale ma per un desiderio di rendere migliore il contesto in cui si vive. In questo modo la luce della trasfigurazione torna ad illuminare il nostro mondo e lo prepara al definitivo compimento che è dono di Dio.