Non ci spaventi la differenza di religioni, ma l’assenza di fraternità

Discorso del vescovo Domenico all'incontro interculturale organizzato da Caritas - Migrantes
09-05-2019

L’altro è un problema oggi

Affrontare il problema dell’altro, cioè con chi evidenzia maggiormente la sua differenza rispetto a noi perché straniero o di altra religione o cultura o lingua, significa alla fine fare i conti con la propria identità. La mia tesi è che se oggi fatichiamo così tanto ad integrare l’altro è perché paradossalmente siamo più fragili rispetto alla nostra identità.

Nella nostra società la velocizzazione dei ritmi e la concorrenzialità ci portano a vivere la vita come una lotta contro il tempo. Ma questa avversione ci fa percepire segmentati in tanti attimi tra loro slegati, senza un filo coerente. Così anche il rapporto con l’altro diventa un problema e la scorciatoia è quella di concepire l’altro, il diverso, lo straniero come il nemico, come una minaccia. Da questa tentazione consegue lo squilibrio per il quale lo spazio invece che da condividere deve essere difeso. Si va, dunque, verso un irrigidimento della identità confessionale contro l’altra confessione e verso un appiattimento della fede sui valori morali per fare da stampella alla società in crisi.

Dio è il Signore di tutta la terra

La rivelazione biblica va in direzione esattamente contraria a questo trend culturale che oggi porta a dividersi tra “prima noi” e poi tutti gli altri. Anzitutto, biblicamente parlando, io posso dire “mio Dio” solo confessando che è anche il Dio di altri, il “tuo Dio”, il Dio che altri mi hanno fatto conoscere e testimoniato, il Dio a cui accedo attraverso l’altro (Rt 1,16: “Il tuo Dio sarà il mio Dio”). E la memoria fondante è quella dell’esodo, cioè della liberazione dalla condizione di stranieri accolti. Come afferma il Levitico: ”Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio. Non commetterete ingiustizie… Io sono il Signore, vostro Dio, che vi ho fatti uscire dal paese d’Egitto” (Lv 19, 33-36). E’ questa la molla segreta che porterà Paolo a superare ogni categoria limitante per affermare che ormai “in Cristo non c’è più giudeo, né greco” (Gal 3,28). I cristiani dovranno da subito cimentarsi con l’alterità di Israele e talora faticheranno a vederlo non come lo scandaloso permanere del popolo infedele, ma come il sacramento della fedeltà di Dio. Il cristiano, dunque, è interprete di questa visione che accoglie la diversità, assume la complessità, e impara a tessere la comunione con persone di cui non conosceva niente. Ma a partire dal fondamento ultimo che è Dio grazie al quale al di là di ogni differenza ci si riscopre come fratelli. La fraternità è l’esito del riconoscimento di Dio che è il Signore di tutta la terra. Diversamente senza questa identità ampia si rischia di essere risucchiati dal vortice dei particolarismi.

I monoteismi: un problema o una risorsa?

È innegabile che il monoteismo sia all’origine di guerre e di violenze. Soprattutto quando il monoteismo è stato declinato al plurale: ebraismo, cristianesimo, islamismo. Possiamo cogliere almeno tre varianti dell’intolleranza religiosa: fra di loro, all’interno di ciascuno, nei confronti degli altri pagani, non credenti, infedeli.

Ciascuno dei tre monoteismi è stato di volta in volta vittima e carnefice. Si pensi al rapporto con l’ebraismo.

In alcuni periodi storici le tre esperienza hanno mostrato di saper convivere, ma questo ha prodotto comunque fenomeni di intolleranza all’interno. Pensiamo alle guerre tra cristiani in Europa.

Il problema dell’intolleranza verso gli altri esterni ha a che fare soprattutto con cristianesimo ed islam, giacché l’ebraismo non ha mai avuto questa proiezione universalistica.

Di qui la tendenza oggi a un ritorno al politeismo che garantirebbe meglio la pace e il rispetto. Ma in realtà come nota A. Dumas: ”Quando la Roma pagana condannava a morte i cristiani per il loro rifiuto di professare il politeismo era forse più umano dei monoteismi che hanno obbligato chi ancora restava pagano a rinnegare la propria fede?”. Bisogna sempre distinguere il monoteismo dalla sua riduzione politica che ne ha fatto un problema. Come oggi c’è chi vorrebbe rieditare una anacronistica alleanza tra trono ed altare per risolvere i problemi di un mondo in decomposizione. Bisogna che le religioni prendano consapevolezza del rischio di essere affiliate ad un progetto politico che in cambio di favori arreca danni alla sua autenticità e soprattutto alla sua libertà. Il monoteismo è una straordinaria ricchezza che conduce ad un superamento della civiltà statica e divisiva, ma deve guardarsi da tre pericoli: un falso universalismo, la “Verità” da imporre a tutti, l’altro è e resta solo un fratello. Quanto al pericolo dell’universalismo dobbiamo riscoprire che la fede è sempre un fatto transculturale e l’esperienza credente non si lega mai a nessuna cultura e a nessuna epoca storica.

Circa la Verità dobbiamo intenderla non come un possesso esclusivo, ma come una ricerca in comune. Il rischio è quello segnalato già da Pascal:”fare un idolo della stessa verità; infatti la verità senza la carità non è Dio: è solo un idolo che non bisogna amare né adorare” (Pensiero 582). E, in ogni caso, la verità è solo quella che testimoniamo e non certo quella che brandiamo.

Infine, occorre riconoscere che la demonizzazione dell’altro non conduce da nessuna parte e che anzi il cristianesimo e le altre religioni devono poter riscoprire il loro sentirsi “stranieri” ovunque proprio in ragione della propria visione escatologica (1 Pt 2,11). Da hostis l’altro diventa così hospes, come nel celebre episodio di Abramo che accoglie tre stranieri alle querce di Mamre (Gen 18,1-15) e li chiama a far propri il rispetto, l’accoglienza e l’ospitalità dello straniero.

Ogni religione dovrebbe sempre saper guardare all’altro uomo e soprattutto all’uomo sofferente e nel dolore: il dolore è di tale estensione universale che nessuna cultura e nessuna religione può pretendere di detenerne il segreto,

Verso il dialogo: ascoltare le storie sacre gli uni degli altri

Tutti e tre i monoteismi sono echi della Parola di Dio. Riprendendo il cammino di Abramo, le tre religioni devono obbedire al comando divino: “Esci dalla tua terra e và verso un luogo che io ti indicherò” (Gen 12,1).

Un’antica massima buddista recita così:”Si dovrebbe sempre onorare la religione degli altri. Così facendo, si aiuta la propria religione a crescere e si rende un servizio a quella degli altri”.

“Se Israele è radicato nella speranza e il cristianesimo votato alla carità, l’islam è centrato sulla fede” (Massignon). Al di là dell’esattezza di questa lettura resta chiara la complementarietà e la reciprocità. Del resto nella Sura V del Corano (la Sura della Mensa) si legge :”Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica. Ma Egli ha voluto provarvi con il dono che vi ha fatto. Cercate dunque di superarvi gli uni gli altri nelle opere buone, perché tutti tornerete a Dio, e allora Egli vi illuminerà circa quelle cose per le quali ora siete divisi e in discordia”.

La dichiarazione sulla fratellanza umana di Abu Dhabi (4 febbraio 2019) dove si afferma la libertà di culto e il no alla violenza è decisiva perché afferma che “alle religioni spetta in questo delicato frangente storico un compito non più rimandabile: contribuire attivamente a smilitarizzare il cuore dell’uomo. La corsa agli armamenti, l’estensione delle proprie zone di influenza, le politiche aggressive a discapito degli altri non porteranno mai stabilità. La guerra non sa creare altro che miseria, le armi nient’altro che morte! La fratellanza umana esige da noi, rappresentanti delle religioni, il dovere di bandire ogni sfumatura di approvazione della parola guerra. Restituiamola alla sua miserevole crudezza”.