Il triduo santo, cuore dell’anno liturgico

Intervento in occasione dell'incontro con gli operatori pastorali alla vigilia della Quaresima
02-03-2019

Oggi ho visto qualcosa di grandioso: Monreale. Sono colmo di un senso di gratitudine per la sua esistenza […] La giornata era piovosa. Quando ci arrivammo – era giovedì santo – la messa solenne era già oltre la consacrazione […] Ovunque le persone stavano sedute sulle loro sedie, silenziose e guardavano […] Che dovrei dire dello splendore di questo luogo? […]. Dapprima lo sguardo del visitatore vede una basilica di proporzioni armoniose. Poi percepisce un movimento nella sua struttura, e questa si arricchisce di qualcosa di nuovo, un desiderio di trascendenza l’attraversa sino a trapassarla; ma tutto ciò procede fino a culminare in quella splendida luminosità. Un breve istante storico, dunque. Non dura a lungo, gli subentra qualcosa di completamente Altro. Ma questo istante, pur breve, è di un’ineffabile bellezza […]. La folla stava seduta e guardava […]. Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di un vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il ‘santo’ nell’immagine e nel suo dinamismo […]. La cosa più bella però era il popolo. Le donne con i loro fazzoletti, gli uomini con le loro coperte (scialli) sulle spalle. Ovunque volti marcati e un comportamento sereno. Quasi nessuno che leggeva, quasi nessuno chino a pregare da solo […]. Ci sono modi diversi di partecipazione orante. L’uno si realizza ascoltando, parlando, gesticolando; l’altro invece si svolge guardando […] Abbiamo perso qualcosa che lì ancora c’era: la capacità di vivere-nello-sguardo, di stare nella “visione”.
(R. Guardini, 1929).

Si ricava dalla pagina di Guardini l’atteggiamento giusto per vivere nella Chiesa e cioè l’ammirazione. Non si può amare la Chiesa senza ammirarla. Guardini resta impressionato dalla bellezza del duomo, del popolo, dei riti, dell’atmosfera. «Tutti erano presi dallo sguardo» commenta a più riprese. Come non desiderare che quello stesso sguardo arrivi fino a noi oggi? Per amare bisogna imparare ad ammirare. E che cosa ammirare nella Chiesa? Essenzialmente la presenza salvatrice del Signore risorto. Non l’efficacia delle sue strutture che sono carenti. Non l’incidenza del suo impegno caritativo che è sempre poca cosa rispetto ai bisogni della gente. Non la consapevolezza dei suoi membri, che spesso non si percepisce. Non l’esemplarità morale che lascia a desiderare. Ad attrarre il nostro sguardo è soltanto la Grazia del Cristo, la cui immagine Pantocrator troneggia nell’abside del Duomo di Monreale.

Il nostro sguardo è attratto, quindi, dalla figura dei santi in carne ed ossa che ne hanno storicamente permesso la crescita. Per noi qui a Rieti da santa Vittoria e santa Anatolia a san Francesco, da santa Barbara a santa Filippa Mareri, da san Felice da Cantalice a san Giuseppe da Leonessa, fino al venerabile Massimo Rinaldi. Ognuno ha contribuito a costruire l’edificio della chiesa che ancora oggi continua, grazie al servizio di tanti come voi. Ogni servizio nella chiesa contribuisce a costruirla e non ce n’è nessuno che sia più degno di onore. Ciò che conta è mai dimenticare che si può lavorare nella vigna del Signore in una molteplicità di modi, ma primariamente attraverso la preghiera di ogni giorno, l’esercizio del proprio lavoro ordinario, l’esperienza della propria vita.

La preghiera resta il primo modo di amare la Chiesa, al di là dei suoi limiti, mettendo a fuoco la sua realtà profonda, specie nel corso del tempo. Di qui l’anno liturgico, il cui nucleo incandescente è il triduo pasquale, cioè la memoria del Signore crocifisso e risorto per noi.

L’Anno liturgico

L’anno liturgico dice il tempo dell’uomo a forma della vita di Cristo. La sua scansione per quanto cronologica, non va intesa in senso solo biografico, ma teologico. È attesa, nascita, manifestazione, vita pubblica, passione, morte e resurrezione. Si tratta di una straordinaria invenzione simbolica che oggi deve tener conto di alcune sfasature. Lo scopo dell’anno liturgico è di narrare-vivere (celebrandola) la storia della salvezza. E questo – si badi bene – in una forma comunitaria. Ciò vuol dire che nessuno diventa cristiano grazie soltanto alla sua opera personale. Al contrario, si incomincia a diventare cristiani solo quando si abbandona l’illusione dell’autosufficienza e si capisce che l’uomo non può creare se stesso e non può da solo provvedere a se stesso, ma deve aprirsi, lasciarsi guidare. Ciò significa che si diventa cristiani non come risultato di un processo di insegnamenti o di un itinerario pedagogico, ma come sacramento.

Esso comprende momenti ordinari e momenti forti, dal significato particolare. È il caso della settimana santa, che i greci chiamano «la grande settimana», in cui si ripercorrono gli ultimi giorni della vita terrena del Cristo. Di essi “tre” sono i giorni per eccellenza. Sono i giorni del triduum paschale, «i giorni che stanno in mezzo fra il tempo e l’eternità», li chiamava Romano Guardini.

L’espressione Triduum sacrum risale già a sant’Ambrogio. Il rapporto tra il primo giorno e l’ultimo è quello che intercorre tra l’amarezza e la gioia, la notte e l’alba. La liturgia ha saputo arricchire questi giorni di preghiere, riti e simboli evocativi, che hanno già una precisa fisionomia nel IV secolo. Li documenta il libro di viaggio della cristiana Egeria. Lungo i secoli vi sono stati vari adattamenti, e le due ultime riforme risalgono a Pio XII (1955) e a Paolo VI (1970). Il decreto delle Norme universali sull’anno liturgico e il calendario del 1969 riferisce i criteri: «Il triduo della passione e della risurrezione del Signore risplende al vertice dell’anno liturgico, poiché l’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio è stata compiuta da Cristo specialmente per mezzo del mistero pasquale, col quale, morendo, ha distrutto la nostra morte, e risorgendo, ci ha ridonato la vita» (n. 18).

Una modalità celebrativa è di considerare questi tre giorni come un unicum, che le nuove norme fanno iniziare il Giovedì santo con la messa in coena Domini. Significativamente, essa si conclude senza il congedo finale. L’assemblea si scioglie in un religioso silenzio, dandosi appuntamento alla seconda tappa, che è la liturgia del Venerdì santo, questa pure senza saluto finale, in attesa della Veglia che, al momento del Gloria, dà spazio a un “teologico fracasso” con cui la comunità esprime la volontà di annunciare la risurrezione. Nell’avvicinarsi di questi giorni, proviamo allora a evocare ciascuno di essi, lasciando a una considerazione successiva la riflessione sul mistero della risurrezione.

Giovedì santo: il giorno del servizio

Il giovedì è il prologo del triduo sacro, dove si fa memoria dell’ultima cena. Di questa abbiamo due versioni: i sinottici, che la identificano con una cena pasquale, riportando l’istituzione dell’Eucaristia, e Giovanni, che ne fa invece oggetto di molte rivelazioni, tra cui il comandamento nuovo dell’amore (Gv 13,34).

L’intero Triduum paschale è come raccolto, anticipato, e “concentrato” per sempre nel dono eucaristico». Il contenuto del suo memoriale è più esteso e orienta nelle tre direzioni del tempo, riepilogate dall’acclamazione liturgica: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta». L’Eucaristia è il cuore caldo della Chiesa, in essa, scrive il concilio, «è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua e nostro cibo» (PO 5).

L’Eucaristia, peraltro, non si esaurisce nel rito, ma ha un’azione plasmatrice che interpella l’esistenza e la storia. Facendosi cibo, Cristo non consegna qualcosa, ma se stesso. È l’auto-offerta del servo. Ciò impedisce di farne un’isola rituale e rende appropriata la scelta della liturgia del Giovedì santo di inserire in questo giorno il Vangelo della «lavanda dei piedi» (Gv 13,1-20). Vari esegeti concordano persino nel ritenere l’intenzionalità giovannea di far coincidere questo brano con quello dell’istituzione dell’Eucaristia riportato dai sinottici. È una inculturazione teologica che mostra l’essere e l’agire del cristiano eucaristico.

Con la riforma di Pio XII, il rito della lavanda dei piedi, prima riservato alla chiesa cattedrale, è stato esteso a tutte le parrocchie, permettendo così a ogni comunità cristiana di lasciarsi interrogare da esso. Dopo l’orazione finale si compie la “reposizione del santissimo sacramento” in un altare diverso. Una volta lo si chiamava “sepolcro” e il rito era strutturato in modo da imitare una processione funebre in vista della sepoltura del Cristo. Tuttavia, poiché Cristo nell’Eucaristia non è morto, ma vivo, oggi gli si dà un diverso significato, quello di accompagnare Gesù che disse: «Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me. Vegliate e pregate» (Mt 26,40). Il protrarsi notturno dell’adorazione ha questo scopo.

Venerdì santo: il giorno dell’amore

Egeria riporta l’usanza dei cristiani di recarsi nei luoghi della passione accompagnando l’itinerarium con canti e preghiere (la prima via crucis). Antica è pure la tradizione di dedicare questo giorno al digiuno, che è duplice: alimentare ed eucaristico, in quanto non si celebra messa. Esso, però, non ha un significato penitenziale, come nella Quaresima, ma stimola l’attesa. La Sacrosanctum Concilium lo denomina infatti «digiuno pasquale» e consiglia di protrarlo «anche al sabato santo, in modo da giungere così, con animo sollevato e aperto, ai gaudi della domenica di risurrezione» (n. 110). I riti che caratterizzano la liturgia di questo giorno sono: l’ascolto della Parola (comprendente una “preghiera universale”), la venerazione della croce e la comunione.

La liturgia del Venerdì santo propone la passione secondo Giovanni. A differenza degli altri evangelisti, egli è più discreto nel raccontare i particolari della sofferenza. La croce, per lui, non è tanto “l’ora” del dolore o dell’umiliazione, ma della rivelazione di un amore. Tutto va in questa direzione. Per amore, il Padre ha mandato il Figlio e per amore questi si è fatto solidale, crocifiggendo nella sua carne il peccato del mondo. Ai piedi della croce si scopre l’amico, colui che dice: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (15,13). Così prende forma anche il comandamento nuovo, la stella dell’etica cristiana, che è di amare come lui: «come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (13,34). Punto di arrivo è Gv 19,34, quando uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Difficile trovare un padre che non sia colpito da questa immagine. I più vi hanno visto la nascita della Chiesa, come san Giovanni Crisostomo, che la paragona alla creazione di Eva: «Come allora il Signore prese dal fianco e formò la donna, così ci diede sangue e acqua dal suo fianco e formò la Chiesa». Poiché la parte più vicina al fianco è il cuore, guardando al cuore di Cristo la Chiesa comprende quanto la sua essenza stia nell’amore. Per Hans Hurs von Balthasar «l’apertura del cuore sta a indicare il dono, per l’uso pubblico, di quanto di più personale e intimo Gesù ha; lo spazio aperto, svuotato, accessibile a tutti».

Gesù poteva incarnarsi, morire e salvarci in mille modi, anche per vecchiaia o attraverso operazioni strabilianti, eppure ha scelto di essere l’uomo dei dolori, che, come scrive Jürgen Moltmann, «ci rivela la sconfinata compassione di Dio e la sua infinita sofferenza come sofferenza del suo amore. Nel suo amore egli soffre con le sue creature e per le sue creature, perché egli vuole la loro redenzione nella libertà». Di un Cristo così ci si può solo innamorare.

La croce appartiene al nucleo del cherigma apostolico e per quanto possa risultare scomoda e folle, non saremmo cristiani se rinunciassimo ad annunciarla. Essa non porta però a impostare una mistica dei patimenti e non fa del crocifisso un talismano, o un simulacro muto. Cristo muore per un’alleanza. Di conseguenza, la sua croce proclama a gran voce che l’amore è l’unica forza in grado di sconfiggere il male. Chi venera il Crocifisso, condivide inoltre una posizione: quella di Cristo che sta dalla parte degli ultimi, degli sconfitti, degli umiliati. La croce è speranza per gli uni, e, al tempo stesso, giudizio severo dell’onnipotente arroganza dei crocifissori. Il venerdì santo di Gesù è il venerdì santo del mondo.

Sabato santo: il giorno del silenzio

Nel punto in cui la vita finisce, mani discrete depongono il corpo morto del Cristo nella tomba e sigillano il Logos con una pietra, riducendolo al silenzio. La Chiesa caratterizza questo giorno come l’unico dell’anno senza nessun tipo di celebrazione liturgica. Gli altari sono spogli e senza ornamenti, si spoglia anche quello della reposizione, le candele sono spente, le campane sono mute. Tutto tace.

Il Giovedì santo potevamo toccarlo nei segni del pane e del vino e il Venerdì santo si poteva vederlo innalzato sulla croce, udendo le sue ultime parole. In questo Sabato tutto è vuoto, anche la croce. Una pietra tombale sembra aver chiuso definitivamente la questione. La sepoltura dice chenosi totale. Un conto è morire e un conto è essere morti per davvero. È l’ultima tappa della discesa. Il simbolo degli Apostoli gli ha dato tanto importanza da farne un articolo di fede: «morì, fu sepolto, discese agli inferi». Non è molto chiaro cosa si intendesse con l’ultima espressione, ma nel linguaggio di allora gli inferi erano le parti più basse della terra, lo Sheol, il regno dei morti. La risalita comincia lì dove più profondo è l’abisso della morte.

Per san Paolo scendere nell’abisso, è far risalire Cristo dai morti (Rom 10,7). Si tratta quindi di una atto che vede il Cristo annunciare una salvezza anche per i morti (cf. 1Pt 3,9). È una risalita cosmica che ha inizio dai frammenti. Per questo, più che produrre lamenti sul corpo morto, i padri orientali hanno parlato del sepolcro già in termini di risurrezione. Il Sabato santo è pure il giorno che ci permette di parlare della morte in modo nuovo. Cristo non libera dalla morte biologica, ma ne rivoluziona il senso, privandola del suo aspetto ostile. La morte non mostra più il ghigno beffardo di una nemica ma, come scrive san Francesco nel Cantico delle creature, il volto amico di una “sorella”, per la quale si può anche benedire il Signore: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale».

Percorrendo il silenzio di questa oscurità mortale la comunità giunge alla notte più importante di tutte. Siamo ora pronti a celebrare la madre di tutte le notti: la veglia pasquale. La luce di Dio splende nella notte. O notte beata, diremo nel canto dell’Exultet. Si accenderà un fuoco e da esso un cero, portandolo in processione in una chiesa buia. È il simbolo della fede che accende la notte. O notte beata! In essa tu ci hai creato, in essa ti sei incarnato, in essa ci hai redento. O notte beata della nostra liberazione. Attraverseremo il mare dell’amarezza e i nostri piedi saranno asciutti. Notte beata in cui i tessuti dell’universo verranno ricomposti. O notte beata! E beati color che sapranno cantare il loro canto d’amore proprio nella notte.

La domenica di Pasqua: il giorno dei cristiani

Il mondo attende ancora oggi che i cristiani sappiano narrare con un cuore solo e un’anima sola la Buona Notizia, svelando con la loro vita che «il solo vero peccato è rimanere insensibili alla Resurrezione», come esclamava Isacco il Siro, e cantando a tutti e per tutti: «Non temete, non abbiate paura, non provate angoscia! Cristo è risorto e vi precede!».