Quaranta giorni per ritrovare se stessi, fermarsi un attimo per vedere il cammino compiuto: se sta cambiando, come sta cambiando, se la fede tiene… sono i tratti del tempo che si è aperto con il Mercoledì delle Ceneri e che prepara alla Pasqua.
Quaranta giorni come quelli del digiuno vissuto dal Signore nel deserto prima di intraprendere la sua missione pubblica. Un tempo di lotta dello spirito del bene contro lo spirito del male, della virtù contro la tentazione.
Nella nostra diocesi il deserto è nella zona rossa di Accumoli e Amatrice. Anche restando al margine, si avverte che lì si scende in profondità. Il disastro mette in tutto in discussione, azzera le certezze, fa vacillare la fede. Bastano quaranta minuti sul posto per capire che lì si gioca la contesa tra la sconfitta e la speranza, tra l’abbandono e la risurrezione.
Specialmente se a questa inquietudine si aggiungono due drammatici episodi di cronaca: il suicidio di un cinquantenne di Amatrice, duramente colpito dal terremoto e dalla depressione, e quello assistito di Dj Fabo in Svizzera.
Anche il vescovo Domenico, durante la messa del Mercoledì delle Ceneri in Cattedrale, ha rivolto a loro il pensiero, perché «ci scuotono dal nostro torpore». «Può succedere che la morte sia scelta al posto della vita», ammette mons Pompili. Ma proprio per questo non dobbiamo lasciarci trascinare verso la disperazione. Occorre invece ricordare che «siamo chiamati a scegliere di vivere e non semplicemente di sopravvivere».
Una svolta positiva è sempre possibile, a patto che ci allontaniamo dal “virus” «dell’abitudine», perché con esso «smettiamo di opporci a ciò che è morte, che è male, e permettiamo che le cose siano quelle che sono, o semplicemente ci adeguiamo a quello che alcuni hanno deciso che siano».
La Quaresima ci è di aiuto, perché ci mette «dentro un combattimento spirituale, cioè interiore», ma guidandoci attraverso pratiche molto concrete, «che diventano come degli anticorpi rispetto all’abitudine».
Come nel caso dell’elemosina che, puntualizza Gesù, si basa «non sulla quantità, ma sulla qualità». «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra», è un invito alla gratuità come rimedio alle mille dolorose contraddizioni della vita, perché fare senza aspettarsi alcun ritorno «è ciò che ci sottrae all’abitudine e ci dà la possibilità di vivere la vita anche nelle sue asperità con un sussulto di vitalità».
Il secondo anticorpo al male dell’abitudine è la preghiera, della quale «Gesù non precisa la formula, ma solo la condizione», dicendo: «Quando poi pregate non datevi allo sproloquio come i pagani». «Nell’ascoltare, più che nel parlare, sta la radice segreta dell’esistenza. Ciò che ci aiuta a resistere alle tante morti quotidiane è poter percepire parole divine, che non sono quelle degli uomini, ma sono le uniche che sanno integrare la gioia e il dolore, la vita e la morte».
Il terzo anticorpo è il digiuno, che il Maestro invita a praticare con la faccia lavata e i capelli profumati. «Digiunare – ha spiegato don Domenico – non è una prova da stress, né un ritrovato estetico. È la condizione per esercitare la nostra libertà dalla semplice pressione dei bisogni. E questo ci rende attraenti e trasparenti, meno ingrigiti e appesantiti».
Non lasciamoci inghiottire dal deserto. Possiamo reagire a quello della zona rossa, come a quello del cuore. Dal cammino che ci porta dritti verso la Pasqua possiamo imparare a esser «insolenti», cioè «non soliti, non scontati, liberi da quella patina dell’abitudine che spesso ci rende insensibili».

