La seconda giornata dell’Assemblea diocesana della Chiesa di Rieti, al centro pastorale di Contigliano, ha proseguito il cammino avviato ventiquattr’ore prima con la riflessione di Paola Bignardi. Il riferimento non è formale: se il giorno d’apertura l’attenzione si era posata sulla “Chiesa che verrà” e sul bisogno di linguaggi umani e dialogici, la tappa successiva ha visto la comunità compiere un passo ulteriore, cercando la forma concreta di una Chiesa capace di riconciliazione. La partecipazione è stata numerosa e attenta, segno di un desiderio reale di mettersi in gioco. A guidare la riflessione, dopo l’introduzione del vescovo Vito, l’intervento di Franco Vaccari, fondatore e presidente di Rondine Cittadella della Pace. Sullo sfondo, la consapevolezza che il confronto di Contigliano nasce in continuità con la prima giornata e si orienta già all’appuntamento di ottobre per la presentazione della Traccia pastorale, annunciata per il 10 del mese.
Nel suo saluto iniziale, il vescovo Vito ha ripreso l’icona biblica delle nozze di Cana come “planimetria generale” del nuovo anno: il banchetto della vita riguarda tutti, e tutti siamo insieme invitati e servitori. L’invito è a “cominciare noi”, con sguardi e gesti di perdono che disinnescano ostilità antiche e nuove. In questa chiave ha richiamato l’appello del Papa ai vescovi italiani a promuovere percorsi di educazione alla nonviolenza, mediazione nei conflitti locali e comunità “case della pace”, fino al desiderio che la Valle Santa diventi una “officina della pace”. Il contesto del calendario ha intensificato il senso delle parole: «non so se dire provvidenzialmente, ma sapete che giorno è oggi?»: l’11 settembre come data-simbolo per ricordare che la pace si costruisce a partire dai nostri ambienti, dal linguaggio e dalle relazioni quotidiane.
Il passaggio dal principio all’esperienza è stato affidato a Franco Vaccari. Il fondatore di Rondine ha proposto la coppia “ospitalità/ostilità” come chiave di lavoro: stessi suoni, radice antica, significato contrario. Ospitare è fare spazio all’altro; l’ostilità lo respinge. Da ventisette anni, giovani provenienti da aree di conflitto – russi e ucraini, serbi e kosovari, armeni e azerbaigiani, israeliani e palestinesi, indiani e pakistani – scelgono la sfida di “stare a tavola” con il proprio nemico. Il nemico, così, si dissolve: non in teoria, ma nella pratica del convivere, nell’ascolto che chiede anche il coraggio del silenzio, nella concretezza di un viaggio in macchina dall’ospite al “nemico” appena arrivato, nei dieci chilometri che sanno di imbarazzo e di paura e diventano, col tempo, la prima tappa di un’amicizia possibile.
Rondine non prende “attivisti belli e fatti”: accoglie ragazzi normali cresciuti “nel guaio della guerra”, che però vogliono uscirne. Lavorare sulla percezione del nemico – ha spiegato Vaccari – significa riconoscere la ferita che abita le biografie e impedire che diventi organizzazione della violenza. Le storie di tavole che includono mancanze (come a Cana) e persino tradimenti (come nell’ultima cena) hanno un contenuto pastorale esigente: la tavola vince sul nemico quando non scivola nel lamento o nella ricerca del colpevole, ma domanda «cosa posso fare io? cosa possiamo fare noi?». In questa domanda, la pace smette di essere quiete e diventa esercizio condiviso.
C’è un’altra conversione richiesta: dall’epoca delle connessioni a quella delle relazioni. L’aneddoto del “treno di Rondine” – undici secondi di rumore che interrompono ogni conversazione – è diventato metafora della fatica di ascoltare davvero: senza l’interruzione dell’altro, restiamo in un soliloquio. La tavola, invece, non ha copione: è il luogo dove ci si interrompe, ci si risponde, si cambia passo. Per questo l’ospitalità va tradotta in pratica: incontrarsi, ascoltarsi, lasciarsi interrogare. Ascoltare richiede il silenzio e il coraggio di farsi “agganciare” dalla storia dell’altro. La pace comincia quando si rinuncia a spiegare tutto e si accetta che l’altro interrompa i nostri automatismi.
Dalla platea, il filo si è annodato alla vita delle comunità. La domanda è diretta: come far sì che case, parrocchie, diocesi diventino “case della pace”? La risposta non offre scorciatoie: si parte dal gesto minimo e lo si custodisce, come il seme che fiorirà a suo tempo. Non si tratta di negare la violenza che abita la storia umana, ma di rifiutare l’idea che la guerra sia ineluttabile. È una posizione controcorrente rispetto al fatalismo del dibattito pubblico, ma è l’unica che apra un campo d’azione pastorale e civile. Anche per questo, Vaccari ha insistito sul passaggio dai “valori” alle “pratiche”: l’ospitalità è valore; l’ascolto è pratica. E la pratica si impara stando insieme.
La serata ha avuto un andamento dialogico. Dopo la relazione, ampio spazio agli interventi: esperienze, perplessità, piste operative. La partecipazione ha confermato la cifra dell’Assemblea: non un convegno, ma un laboratorio in cui la comunità si misura con il presente e ne trae indicazioni per il passo successivo. In controluce resta l’eredità della prima giornata, dove Paola Bignardi aveva consegnato l’immagine di una Chiesa “come una cena a casa di amici”, capace di un ascolto uno a uno, materna prima che maestra. È la stessa grammatica che oggi si traduce in prassi di riconciliazione.
Prima del congedo, il vescovo Vito ha rinviato all’appuntamento di ottobre per la presentazione della Traccia pastorale e ha reso note alcune nomine per parrocchie e uffici della Curia, nell’orizzonte di un cammino condiviso e missionario. L’elenco completo è stato pubblicato sul sito diocesano.
Il segno che resta è semplice e impegnativo. Se la “planimetria” del nuovo anno è Cana, allora il lavoro è mettere acqua nelle anfore: oggi, non domani. La Chiesa di Rieti ha scelto di farlo a tavola, guardandosi negli occhi. È il luogo dove l’ostilità smette di dettare il copione e l’ospitalità diventa stile. La festa non si rinvia: la si serve.