All’inizio, simbolicamente, il buio. Ma fuori dalla Cattedrale di Rieti, sotto il portico, un piccolo fuoco acceso a riparo dal vento leggero della sera ha generato la fiamma che avrebbe dato vita al cero pasquale. Un gesto antico e semplice, custodito nella sobrietà di chi sa che la luce nasce nel silenzio. Da quel cero, una dopo l’altra, le fiammelle delle candele dei fedeli: mani che si protendevano, volti rischiarati da una luce condivisa. Poi l’ingresso nella basilica, ancora immersa nelle tenebre, fino all’altare.
È iniziata così, nella notte tra il 19 e il 20 aprile, la Veglia Pasquale presieduta dal vescovo Vito: come una rinascita. Un rito antico e sempre nuovo, che conclude il lungo cammino del Triduo e apre i cinquanta giorni della Pasqua. Dopo l’olio profumato del Giovedì santo, il legno della Croce del Venerdì, il silenzio inabitabile del Sabato, ora il segno è la luce. Una luce che all’inizio non invade, ma attraversa il buio. Una luce che poi, idealmente, abbaglia. Ma non per questo acceca: orienta, indica la via, disvela la realtà profonda del mondo. «Dio non ha gli effetti speciali», ricorderà più avanti il vescovo, «si mette dentro il percorso ordinario delle nostre vite».
La Veglia è stata partecipata da molti: una comunità ampia, generazioni che si ritrovano, voci intrecciate nella preghiera, corpi in ascolto prolungato della Parola. «Forse qualcuno si sarà lamentato per le tante letture», ha scherzato monsignor Piccinonna, «ma la liturgia è il luogo dove riceviamo l’opera di Dio, non qualcosa che costruiamo». E questa notte è stata, più di ogni altra, il grembo dell’azione divina: le Scritture come un album di famiglia, il battesimo di Nicolò come segno di un’appartenenza viva. Un bimbo portato dai genitori al fonte battesimale, accompagnato dalla sua famiglia e da tutta la comunità cristiana, ha ricevuto il battesimo tra gli sguardi attenti e la partecipazione di tutti. L’applauso spontaneo che ha seguito il rito è stato più di un gesto di simpatia: è stato riconoscere che la Chiesa vive ancora, e si rinnova.
Al cuore dell’omelia, la risurrezione come invito a cambiare postura. Le donne del Vangelo, capaci di vegliare, di interrogarsi, di non sottrarsi allo sguardo chinato della delusione, diventano maestre della fede. «Anche noi spesso abbiamo il volto a terra, sfioriamo l’asfalto col nostro andare avanti», ha detto il vescovo. «Ma la Pasqua è questo: sollevare lo sguardo. Non cercare Dio tra i morti. È vivo».
Un’esortazione a non anestetizzare il cuore, neanche nelle notti della ragione, della fatica, dell’ingiustizia. «Viviamo questa notte facendo esperienza di resurrezione», ha aggiunto, «portando qui l’umanità intera, segnata dalla guerra, dalla violenza. Ma noi siamo qui per accendere la nostra vita alla presenza di Cristo risorto. Egli è la vera pace».
Nel saluto finale, monsignor Piccinonna ha invitato con affetto la comunità ad essere «gente che vive con la bussola del Vangelo», che non chiude la vita cristiana tra parentesi. E il popolo di Dio ha lasciato la Cattedrale, nel cuore della notte, portando con sé qualcosa di più della luce delle candele: un invito a vivere da risorti, a farsi interrogare dalla vita e dalla fede, a non cedere alla stanchezza. Non favole, ma segni. Non effetti speciali, ma percorsi quotidiani trasformati.
Le celebrazioni della domenica di Pasqua vedono il vescovo impegnato nella Celebrazione eucaristica delle ore 11 ad Amatrice e alle 18 di nuovo in Cattedrale a Rieti. Segni della stessa gioia, disseminati in luoghi diversi. Perché la Pasqua non resta ferma: cammina, come i discepoli sulla via. E ci precede.

