Sinodalità: il cammino che ci attende

Discorso all'incontro con i sacerdoti, i religiosi, i diaconi del terzo giovedì del mese
18-10-2018

Sinodalità è un sostantivo astratto (syn-hodòs) che vuol dire cammino comune. Più che soffermarmi sul valore teologico di questa realtà vorrei attestarmi sulla sua applicazione alla nostra vita quotidiana di parroci e di vita pastorale per ricavarne qualche spunto utile alla nostra comunione. Dopo il Vaticano II si introdusse il termine “conciliarità” e/o “collegialità”, ma già Congar nel 1959 recuperava il senso dei concili come risposta ad un’esigenza profonda della vita della Chiesa. Del resto alla voce “Sinodo” si rimandava a quella di “Concilio”. Dunque, lo scopo della presente riflessione è vedere come aiutare ad attuare lo spirito del Concilio, attraverso una prassi sinodale concreta e a portata di mano. Solo così comprenderemo ciò che diceva Ignazio di Antiochia agli Efesini, che sono «synòdoi», «coloro che camminano insieme», popolo pellegrinante verso il Cristo. Per questo il senso ecclesiale del vocabolo sfocia sul significato cristologico: Cristo è «il compagno di viaggio» e la Chiesa è l’assemblea dei credenti che ha in mezzo a loro Gesù come compagno di strada (Emmaus: camminava con loro: Lc 24,15). Per questo con espressione lapidaria Giovanni Crisostomo: «Ekklesìa… synodou estìn ònoma», «il nome del sinodo dice la Chiesa stessa, il sinodo… è il nome della Chiesa».
Sviluppo tre temi: la costruzione della Chiesa nel discernimento; il significato del “consigliare nella Chiesa; la formazione dei laici corresponsabili.

La costruzione della chiesa nel discernimento

Dobbiamo ripensare la figura del parroco e del vescovo dentro la ecclesiologia del Vaticano II, dove alla Lumen gentium troviamo chiaramente indicata la progressione: la vocazione universale alla santità (I capitolo), il popolo di Dio (II capitolo), la gerarchia (III). Bisogna rigirare la piramide e partire dalla destinazione di tutti e di ciascuno.
La domanda da cui partire è chiedersi quale è la funzione del prete in cura d’anime. Che cosa si intende con l’espressione che «il parroco è pastore proprio della comunità affidatagli» (can 519)? Si capisce che l’insistenza sulla cura delle anime possa mettere in ombra la formazione di una comunità fraterna, insistendo soltanto sulla dimensione individuale della salvezza e meno sulla dimensione ecclesiale che vede il prete non solo ingaggiato in un a tu per tu col singolo, ma come membro di un presbiterio di cui condivide in solido la comune missione. Di fatto senza accorgercene si è perduto il senso della convocazione e si è finito per ricondurre tutto al rapporto prete-fedele. Come il medico che si interessa solo alla cura individuale, mentre disattende l’attenzione agli aspetti socializzanti, salvo casi di epidemie o mali contagiosi.
Il passaggio che è richiesto dall’immagine di chiesa del vaticano II è quello dal binomio individualismo + verticalità a una pastorale che valorizzi la dimensione comunionale sia dell’ecclesia sia del presbiterio. La cura oltre che delle anime è della comunità, attraverso i tria munera.
Ciò richiede un ripensamento della categoria di presidenza che il Codice prevede debba essere esercitata «sotto l’autorità del vescovo» e «con la collaborazione di altri presbiteri, quindi entro una trama di rapporti di collegialità. Di qui due coordinate essenziali: il rapporto con la comunità e quello col presbiterio. La carità pastorale che è la cifra distintiva del prete deve trovare forma nell’esercizio del ministero che per essere “buono” deve favorire la costruzione di una comunità che insiste su un territorio, in ordine a suscitare la fede nelle condizioni della vita quotidiana. E ciò che conta è la presidenza nel discernimento comune che si esprime non solo nella liturgia, ma in tutti gli atti della vita comune dove si costruisce la fede della comunità: catechismo, incontri personali, visite ai malati, feste patronali […]. Il parroco è la guida della comunità, non il capo o il dittatore, ma colui che sa animare e creare collaborazioni adeguate, rifuggendo da forme manageriali. Ciò che fa crescere la fede del popolo di Dio è coinvolgere anche attraverso il consiglio da parte di tutti».

Il signficato del “consigliare” nella chiesa

San Tommaso ritiene il consiglio un dono dello Spirito Santo che corrisponde alla virtù cardinale della prudenza (STH II-II, qq. 47-52). Il filo logico del suo pensiero è articolato in cinque passi: che cos’ è la virtù della prudenza; il consigliare/consigliarsi come parte della prudenza; il dono dello Spirito e la beatitudine corrispondente; il discernimento; conseguenze per il consigliare nella chiesa.
Per Tommaso l’atto principale della prudenza non è bloccarsi ma giungere ad una decisione. Per far questo la prudenza raccoglie pareri, giudica e valuta dati, e infine decide. Non basta l’ascolto se non si arriva mai alla decisione. Però prima occorre sostare con attenzione. Senza tale prudenza npn si ha né giustizia, né fortezza, né temperanza.
Strettamente congiunta alla prudenza è la eubolia, cioè la capacità di ben consigliare. Ciò sta a dire che chi consiglia deve farlo con intelligenza e chi ascolta deve essere docile a quanto viene detto. Tutti hanno questa capacità di consigliare per il bene comune.
Il dono del consiglio nasce da un ascolto profondo di Dio e della sua parola e assume un aspetto misericordioso, cioè non spara sulle persone e sulle situazioni, ma si lascia ispirare dalla compassione; non è un’opera di fredda intelligenza, ma è parte della comprensione del cuore.
Il discernimento allora diventa prudenza che è l’amore che fa discernere bene le cose dalle quali siamo aiutati a tendere a Dio, contraddistinguendole da quelle che ce lo impediscono. Il discernimento nasce dalla tradizione monastica egiziana e suggerisce che bisogna capire bene cosa fare specie in un tempo così veloce e tumultuoso.
Si ricava da quanto dice Tommaso almeno quattro conseguenze pratiche.
La prima è che il consigliere deve essere animato da un desiderio sincero per il bene della comunità e non corroso dalle proprie tensioni e frustrazioni.
La seconda è che il consiglio richiede la preghiera perché un dono che passa attraverso la mia razionalità, ma non si esaurisce in esso.
La terza è che consigliare non è senza indagine e creatività, cioè richiede studio e fantasia e non si improvvisa.
La quarta è la più importante e cioè ricondurre tutto al volto stesso di Gesù e capire che cosa vuole da noi in questo momento.

La formazione dei laici corresponsabili

Non basta curare la qualità della fede personale, ma anche curare la qualità testimoniale della fede, cioè il suo farsi carico della situazioni di vita.
Bisogna trovare forme per coinvolgere anche persone diverse dalle solite, evitando una cooptazione dall’alto e innescando un processo di coinvolgimento dal basso.
Ciò richiede un’attitudine al lavoro comune e una cura per la formazione delle persone. Molte di esse non si ritengono adatte e non si tratta di una scusa, ma di una richiesta di essere aiutati a crescere nella fede da testimoniare.
Di qui l’esigenza di una formazione dei laici che passi attraverso una scuola di formazione teologico-pastorale. Non possiamo pensare di caricare i laici di pesi senza dotarli di risorse interiori adeguate.
«Non vorremmo morire né asfissiati per estremo centralismo, né assiderati per estremo individualismo. Né uno può pensare di essere tutti, né ciascuno può credere di essere il tutto, ma solo la diversità e l’unità di tutti è una totalità. Questa è l’idea della chiesa cattolica!» (K. A. Mohler).