Omelia in occasione della Domenica delle Palme

(Is 50, 4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47)
25-03-2018

«Ma egli taceva e non rispondeva». Ciò che, a prima vista, colpisce nel racconto della passione secondo Marco è il silenzio e la solitudine di Gesù. L’evangelista non indulge su particolari truculenti, alla Mel Gibson per intenderci. Si concentra piuttosto sulla sua condizione interiore, segnata dall’abbandono di tutti, compresi i suoi discepoli. Perfino Dio sembra essersi sottratto quando Gesù esclama: «Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?». Marco, però, non vuole offrire soltanto la rappresentazione di un fallimento. Emerge così un paradosso: cioè gesti e parole che capovolgono questa sensazione di scacco. Come il tenero gesto di un’anonima donna che gli unge la testa con un profumo costoso, manifestando così la tenerezza di un amore spassionato, che riconosce in Gesù un povero. E poi Simone di Cirene che portando la croce a fianco di Gesù, incarna la figura del “mediano” di spinta, che si fa carico di quanti soffrono e sono esclusi. Finalmente, il centurione romano, un pagano, avvezzo alle armi, che si lascia smuovere da come muore il Maestro e ammette: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio!».

C’è, insomma, chi vede nella croce solo la fine di un sogno e si affretta a far perdere le tracce, oppure chi vede proprio nel Crocifisso lo svelamento del senso della vita e di Dio. La croce non è un test di crudeltà umana (ce ne sono stati e ce ne sono di più raffinati!), ma il segno della tenerezza divina, davanti a cui sprofondare nel silenzio. Per non accodarsi al grido sgangherato della folla che urla: «Crocifiggilo!».

Gesù non cerca ammiratori, ma solo imitatori. Per questo dobbiamo interrogarci: sappiamo sottrarci alla presa del popolino che sprizza rancore e odio da ogni poro, oppure siamo capaci silenziosamente di introdurre gesti di tenerezza, di aiuto e di stupore nel quotidiano? Gesù resta in agonia fino alla fine del mondo perché anche oggi sono milioni le vittime dell’odio e dell’ingiustizia. E noi? Etty Hillesum, deportata in un lager nazista ha lasciato scritto nel suo Diario: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio… Una cosa diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi».