Omelia della II domenica di Pasqua

(At 5, 12-16; Sal 117; Ap 1, 9-11a-12-13.17-19; Gv 20, 19-31)
28-04-2019

«Nel giorno del Signore», accade a Giovanni di vivere un’esperienza di rivelazione a Patmos. È sempre la domenica, quando: «alla sera di quel giorno, il primo della settimana» è collocata l’apparizione del Signore risorto. In effetti, sono diversi i nomi dati alla domenica dai primi cristiani: “primo giorno dopo il sabato”, “primo giorno della settimana”, “giorno del Signore”, e poi ancora “ottavo giorno” e, per finire, “giorno del sole”. Quel che se ne ricava è che la domenica è questione decisiva per la fede, ma anche per l’umano. Ai nostri giorni, dopo venti secoli di cristianesimo, la domenica è ridotta piuttosto male. Per cominciare, non è più il primo, ma solo l’ultimo giorno della settimana, il week end, appunto. Ma soprattutto, si capisce che è un giorno in cui alla rinfusa c’è di tutto, meno l’essenziale. Senza accorgercene – sotto l’incalzare del consumismo – abbiamo barattato il riposo con lo svago, la riflessione con l’eccitazione, l’incontro con l’isolamento. E per quel che riguarda la comunità siamo a livelli sempre più scarsi di appartenenza.

Che cosa è invece la domenica? La domenica non è tanto un precetto da assolvere nel tempo più breve e nello spazio più comodo, ma è una questione di identità e di rivelazione della nostra fede. La salvezza che il cristianesimo vuole annunciare non è solo dentro la storia, ma anche all’interno di una dimensione comunitaria. Ci sono almeno tre condizioni da preservare.

La prima è la domenica come giorno dell’Eucaristia. Per i primi cristiani alla domenica era festa perché si celebrava l’Eucaristia e non il contrario. Per questo si celebrava l’Eucaristia prima dell’alba e questo non solo per rievocare la memoria della resurrezione, ma anche perché essendo fino al IV secolo un giorno lavorativo, era quello l’unico momento utile per riunirsi.

La seconda è la domenica come giorno della comunità in cui ci si riconcilia, prima di recarsi all’altare. E soprattutto in cui si condivide quello che si ha e quello che si è. Il vescovo ad esempio deve fare l’elemosina tutte le domeniche secondo il XVI Canone di Atanasio (!).

La terza è la domenica come anticipo della domenica senza tramonto. Non più “il sabato del villaggio” dove si ha la sensazione che tutto sta per finire. Ma l’anticipo di quello che è per sempre. Di qui il riposo perché ciò che è decisivo dipende da Dio.

Scriverà il martire Felice (IV secolo): «non si può essere cristiani senza il dominicum, né celebrare il dominicum senza il cristiano».