Omelia del Venerdì Santo

(Is 52, 13-53, 12; Sal 31; Eb 4, 14-16; 5, 7-9; Gv 18, 1-19, 42)
19-04-2019

«Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Golgota, dove lo crocifissero». La crocefissione era una pratica in uso presso diversi popoli, ma i romani la impiegarono su larga scala per domare le rivolte nelle irrequiete province dell’Impero. Finire sulla croce era al tempo stesso un supplizio doloroso e una morte infamante. Il dolore nasceva non tanto dalle ferite dei chiodi, quanto dall’asfissia progressiva. Al punto che il malcapitato per provare a respirare era costretto ad innalzarsi sui piedi forati e sanguinanti. L’infamia, quasi uno stigma sociale, era legata al corpo esposto nudo in pubblico e spesso slabbrato dagli animali. Una punizione esemplare che non poteva non colpire chiunque si trovasse di fronte a tale spettacolo.

Per reggere un supplizio così disumano spesso al malcapitato venivano somministrate sostanze stupefacenti, ma nel caso del Maestro la sua elevata consapevolezza è un dato costante dall’arresto alla morte. Il dolore di Cristo non è stato probabilmente superiore a quello di tanti poveri cristi violentati, struprati, torturati. Forse più che la quantità delle sofferenze del Maestro colpisce la qualità del dolore vissuto. A proposito del quale giova ricordare quel che scrive un cristiano dei nostri tempi: «È infinitamente più facile soffrire ubbidendo ad un ordine dato da un uomo, che nella libertà dell’azione responsabile personale. È infinitamente più facile soffrire comunitariamente che in solitudine. È infinitamente più facile soffrire pubblicamente e ricevendone onore, che appartati e nella vergogna. E’ infinitamente più facile soffrire nel corpo che nello spirito. Cristo ha sofferto nella libertà, nella solitudine, appartato e nella vergogna, nel corpo e nello spirito, e da allora molti cristiani con lui» (D. Bonhoeffer).

I crocifissi sono sempre in mezzo a noi. Ovunque ci giriamo ne troviamo di nuovi e di impressionanti. Ma il rischio è quello di spettacolarizzare il dolore, la morte in diretta, lo scialo di sofferenza esibita alla curiosità morbosa,, ma come si trattasse di un rito collettivo per esorcizzare la sofferenza. Guardando al crocefisso possiamo chiederci: sappiamo sostenere la visione di un concreto volto sofferente? Ha ancora un senso la compassione o è ormai soffocata tra indifferenza, rimozione, abitudine, paura?