«Le tre parabole della misericordia» (3)

Lectio divina del vescovo con i giovani (Lc 15, 11-32)
18-12-2015

«Se mai dovessero perdersi i quattro Vangeli, che almeno si salvi questa pagina. Basterebbe!». A pensarla così è uno spirito inquieto come Charles Péguy, che aveva colto proprio in questa parabola il fuoco del Vangelo. Potremmo definirla una sorta di “Vangelo nel Vangelo”: se, infatti, dovessimo perdere tutto il Vangelo e restasse solo questa pagina, sapendo di cosa parla, capiremmo chi è Dio e… chi siamo noi! Al cuore del Vangelo c’è, in realtà, la conversione più radicale che ci sia, che non è tanto la conversione del peccatore, ma del giusto, che è chiamato a convertirsi dalla sua giustizia presunta alla misericordia di Dio. A dirla tutta, chi si è perduto è certo il figlio minore, ancor più il figlio maggiore, ma soprattutto a perdersi nel cuore di entrambi è il padre, che alla fine abbraccia l’uno e esce incontro all’altro.

È il passaggio decisivo dalla Legge al Vangelo: noi pensiamo che Dio ci salvi perché siamo buoni, perché osserviamo la legge, altrimenti Dio ci punisce. È quel che tutte le religioni predicano, che tiene l’uomo schiavo nei doveri. Questa è l’immagine di Dio che tutte le religioni più o meno hanno e la religione prospera su questa immagine di Dio. Questa parabola ribalta la nostra idea su Dio, la nostra costruzione su di Lui e ci presenta l’uscita sia dall’ateismo crasso di chi si ribella e poi si vende agli idoli, sia la falsa religione che rifiuta il volto vero di Dio.

Ripercorriamo il testo attraverso tre brevi momenti.

1. Tutti e due figli si sono allontanati dal padre.

Il più giovane, sbattendo la porta; il più grande, restando, anche se con il cuore altrove. Per il più giovane la casa è troppo stretta, per il più grande è troppo vuota. E così entrambi se la lasciano alle spalle e con essa il padre, che perdono perché in fondo non l’hanno mai conosciuto sul serio. «Si allontanano»: ecco descritto nel mondo più convincente il peccato, cioè il male dell’uomo. Si tratta di un impercettibile “congedo” da Dio, cioè dal nostro habitat naturale, dalla nostra più segreta identità. A pensarci bene, ciò che da consistenza al nostro vivere è il fatto che esista Qualcuno da cui si proviene e verso cui tendere; altrimenti non avrebbe senso né restare fedeli, né diventare infedeli, perché non ci si allontana da nessuno. Se c’è solo il vuoto dietro e avanti a noi, cosa significa sbagliare o indovinare? Per questo oggi è scemato il senso del peccato, sebbene prontamente rimpiazzato da strani sensi di colpa, spesso irrazionali e comunque fondati sulla pressione dei miti dominanti e della pubblica opinione. L’anoressia, ad esempio, è una complessa malattia mentale che rende schiavi della bilancia e perfino in bambine di 8/10 anni può condurre ad esiti disastrosi. Se manca il riferimento a Dio, si introducono altri standard, altre performance da esibire che ci gettano nel panico. Peccare significa allontanarsi da questa luce e da questa forza che non ci rende schiavi di nessuna cosa e di nessuna persona. Ma chi se ne rende conto? Non è sintomatico che proprio la nostra generazione cresciuta in nome dell’autonomia e della libertà più sregolata sia finita per essere soggetta alle più svariate forme di dipendenza patologica? Per non dire di questo ricorso sempre più frequente alla psicanalisi come ancora di salvezza per ogni disturbo. Ma e se a mancarci fosse proprio Dio? Se fosse che non possiamo stare senza sperare di trovarlo e comunque di cercarlo?

2. Ma perché ci si allontana da Dio?

Ci si allontana in forme diverse: fisicamente, come nel caso del figlio minore, e affettivamente, come nel caso del figlio maggiore. I due fratelli lasciano intravedere due situazioni che corrispondono a sensibilità diverse per formazione ed esperienza. Il più giovane lascia il padre perché si sente oppresso, limitato, inibito dalla figura paterna. «Dammi la parte che mi spetta» sbotta un bel giorno. Capita che ad un certo punto ci si allontani da Dio, percepito come un gendarme, come uno che ti colpisce, che ti vede per giudicarti. È un’immagine questa del Dio irato più frequente di quel che si pensi. Che puntualmente compare a dirci che abbiamo fatto nostra la costruzione delle religioni naturali, in cui dio è uno da temere e per di più limitante. Perché diversamente quando ci capita un dolore o un problema ci viene spontaneo pensare: «Ma che male ho fatto per meritarmi questo da Dio?». O più semplicemente Dio manca, ma non ci manca. Non se ne avverte il bisogno, tantomeno il desiderio. E dunque non entra per niente in gioco. È un’ipotesi superflua. Ben altri sono gli assilli che ci portano alla fine a ritrovarci soli, preda di una compulsione verso se stessi, che ci fa ritrovare a pascolare i porci, senza nessuno che ci offra da mangiare, perché la legge della vita resta che non ci si basta e che l’essenziale va ricevuto e non carpito.

Il più grande, invece, lascia il padre perché nel profondo si sente un salariato più che un figlio e cerca dunque il massimo vantaggio («neanche un capretto», si lamenta), ma non ha un rapporto vero con lui. Dio è uno da tenersi buono, tutt’al più da ingraziarsi con opere e sacrifici. Una presenza che non può essere evitata e che deve perciò essere contrattata. Ma non è questo un incontro libero, giocato sulla possibilità di rifiutarlo. Alla fine il figlio maggiore capisce ancor meno chi è suo padre e lo considera come un ingiusto che ha preferenze per lo scavezzacollo della famiglia.

3. E il padre? Come è veramente?

Lo sviluppo del racconto ci consente di coglierne alcuni aspetti. Il primo è la sua accondiscendenza dinanzi alla scelta risoluta del più giovane di andar via. E probabilmente la divisione dell’eredità è da interpretare anche come un desiderio che pure l’altro figlio provi ad uscire e a sperimentarsi. In ogni caso, avrebbe potuto contrastare il più giovane, opporgli la sua esperienza, negargli l’eredità. E invece lo asseconda, lo lascia libero di sbagliare, perché lo ama sul serio e sa che è importante provare a realizzare quello in cui si crede di credere.

Non è accondiscendente come molti genitori oggi che lasciano per una falsa tolleranza. Lui acconsente, ma attende pure fiducioso il ritorno a casa. Trepida per lui, scruta la strada nella speranza di vederlo ritornare. E infatti sarà Lui ad accorgersi del giovane quando ancora è lontano. E quasi non crede ai suoi occhi, si commuove, addirittura gli corre incontro, lo “stra-abbraccia”, lo bacia. Sembra una madre più che un padre, tanto che Rembrandt nella sua celebre tela evoca due mani nell’abbraccio: una ruvida e virile e una minuta ed inequivocabilmente femminile.

Ma non finisce qui. Il padre è accondiscendente e insieme trepidante. Anche verso il figlio maggiore. Dietro il suo «uscire» di nuovo mentre la festa è imbandita per il più giovane, c’è tutto il dramma di un uomo che non si sente riconosciuto neanche da quel figlio che era rimasto a casa. Gli assicura che «tutto ciò che è mio è tuo», ma non basta a sedare la reazione collerica e disperata del fratello maggiore, che vive la festa a chi si era perduto come una insopportabile ingiustizia. E tradisce così la sua vera relazione con il padre, che non è segnata dalla gioia della condivisione, ma solo dalla paura della punizione. O quel che è peggio da una visione della salvezza individualistica in cui ciascuno “speriamo che se la cava”. Quando la fede ci rende chiusi nella nostra ricerca di autoperfezionamento individuale, gatta ci cova. Dio può diventare la forma più raffinata di autoesaltazione, che cozza contro quello che la fede genera sempre, e cioè l’incontro e la condivisione tra fratelli e sorelle.

La parabola si chiude con un finale aperto. Non ci dice se il figlio maggiore si decide ad entrare finalmente alla festa. Come dire che ciascuno deve metterci del suo per portare a conclusione la parabola. Allora comprendiamo il senso dell’apertura delle tre parabole che il Maestro ha snocciolato con leggerezza: «Si avvicinavano a lui tutti gli esattori del fisco e i peccatori per ascoltarlo; i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia insieme con essi. Allora egli raccontò loro questa parabola» (Lc 15, 1-3).