Incontro Pastorale della Chiesa di Rieti

Introduzione del vescovo Domenico
09-09-2016

La memoria della dedicazione della Cattedrale (Onorio II, 9 settembre 1225) segna l’inizio di questo appuntamento ecclesiale. Tre – come è noto – sono i verbi che lo ritmano: camminare, costruire, confessare. Dopo le 3,36 del 24 agosto scorso potremmo ridefinirli così: accompagnare, ri-costruire, imparare a credere.

Il terremoto non è passato, è ancora in mezzo a noi. Non mi riferisco tanto allo sciame sismico, ma a quello che sta accadendo. Generazioni intere spazzate via in ottanta secondi, la vita cambiata in un attimo. Si sono polverizzati legami strutturali: madri che hanno perso i figli, figli che hanno smarrito il papà e la mamma; e ancora nonni senza più nipoti, nipoti senza più nonni. E per finire amici, parenti, vicini di casa, conoscenti che si sono dileguati. Tutto è stato annullato. Nulla è più come prima. Non possiamo circoscrivere questo evento al cratere del sisma, ma dobbiamo allargarlo a tutti noi che di questo territorio siamo parte. Non si può pensare che passata l’emergenza la vita riprenda a scorrere come sempre. Anche per questa nostra Chiesa reatina qualcosa è cambiato. Per sempre.

Camminare ora significa accompagnare, cioè stare accanto, anche se questo costringe a rivedere le nostre priorità. Significa, infatti, muoversi al passo degli sfollati, che pagano il prezzo più alto. Tra questi vorrei citare, perché alcuni sono tra noi: don Savino, Don Cristoforo, Don Luigi Aquilini, don Luigi Dalla Costa, Don Paolo e don Giovanni, Don Fabio Gammarota, come pure le suore benedettine di Scai. E naturalmente il pensiero e la preghiera vanno alle tre suore di don Minozzi che sono morte. Questo è il tempo di sentire il grido degli abitanti di Accumoli e di Amatrice, peraltro sempre espresso con dignità e modestia. Accompagnare vuol dire condividere il tratto di strada che separa dalla ripresa di una vita normale. Tratto che sarà lungo. Dopo la transumanza di questi giorni, la ricollocazione in moduli abitativi provvisori, fino alla ricostruzione. Ad Amatrice è stato montato un ospedale da campo. Non è più soltanto un’immagine per dire la chiesa. È quello che ci aspetta. E richiederà pazienza, costanza, vicinanza. Quando si saranno spenti i riflettori della stampa e dell’opinione pubblica, noi dovremmo continuare a stare accanto. E ci sarà bisogno di tanti, di tutti.

Ri-costruire è un’opera prima che materiale, di carattere interiore. Il paese più devastato è il cuore delle persone. Ci vuole una lunga fase di ascolto, di condivisione, di sostegno. In questo momento ci è chiesto soprattutto di assicurare una spalla su cui piangere e una mano da stringere. Non è poca cosa. E richiede di affrontare il nervo più scoperto: il senso dell’abbandono e della solitudine, che rimane anche se volontari, Protezione civile e corpi dello Stato hanno fin qui assicurato con tempismo e competenza l’umanità della sopravvivenza. Come comunità cristiana dobbiamo favorire spazi e momenti di condivisione e di appartenenza. E vigilare, perché già da ora la fase della messa in esecuzione delle case provvisorie tenga conto di questa necessità di ricreare il borgo e il paese.

Infine, imparare a credere, cioè confessare la fede anche ora che tutto sembra privo di senso. È facile credere quando tutto fila liscio. Ora ci è chiesto di cercare Dio ancora di più, come mi hanno confidato alcuni sopravvissuti. Le messe celebrate nelle tendopoli e la preghiera sono una maniera concreta per sostenere il cammino. Ma anche le opere materiali a favore degli sfollati sono una forma credibile di fede che agisce: «l’occhio dolce che dove guarda, vede» (Madre Teresa di Calcutta).

Questi giorni dell’Incontro pastorale saranno allora un modo per esercitare lo «sguardo dolce che dove guarda, vede», anche se abbrutito dalle macerie degli uomini e delle cose. L’odore della morte non si è dileguato. Insieme dobbiamo ritrovare la forza per evangelizzare, che «non è fare una passeggiata, cioè ridurre tutto ad una funzione per fare proselitismo», ma «dare gratis quello che Dio gratis ha dato a me», ha detto il papa stamani nella messa a Santa Marta.

Si comincia con il prof. Nando Pagnoncelli, che ci aiuterà a guardare e a vedere chi siamo e dove ci troviamo. Poi domani sarà la volta della prof.ssa Chiara Giaccardi, che ci aiuterà a rigenerare quello che siamo e che facciamo. Per concludere domenica con me e individuare quali passi concreti muovere per evangelizzare oggi. Senza dimenticare le parole di Paolo che lasciano intendere il capovolgimento sempre atteso dalla morte alla vita: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?… Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8, 35.38).