Diaconato di Marcello Imparato

XXVIII domenica del tempo ordinario (Is 25,6-10a; Sal 22; Fil 4, 12-14.19-20; Mt 22, 1-14)
11-10-2020

«Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire». A prima vista, la parabola del banchetto di nozze lascia interdetti. Come si può pensare che proprio tutti, nessuno escluso, declinino l’invito? O immaginare un banchetto di nozze, cui partecipa alla fine solo gente raccattata all’angolo delle strade? E che dire, infine, della reazione quasi isterica del re che caccia violentemente dalla sala uno che non rispetta il dress code? Se, però, la parabola vuol dire qualcosa sull’inspiegabile rifiuto di Dio non potrebbe essere più convincente. Viene così ad evidenza, da un lato l’ostinazione di Dio in cerca dell’uomo e dall’altro il sistematico rifiuto del popolo che si sottrae per trascuratezza, per presunzione, o addirittura, per aggressività. Nella parabola ci sono parole che ritornano: kalèo, che significa “chiamare” per ben cinque volte; gamos, cioè le nozze sette volte; doulos, cioè “servo”, cinque volte. Si capisce che dietro l’oracolo di Isaia e, ancor di più dietro, la parabola matteana si nasconda chi è la chiesa.

Anzitutto, è un invito. Non un obbligo o un dovere, ma un invito. Perché «l’uomo è il rischio di Dio: il Dio della sala vuota, dalle chiese vuote e tristi, il Dio del pane e della vita che nessuno vuole, nessuno cerca, nessuno gusta». Ma Dio chiama continuamente e non una volta soltanto. Anche in questa pandemia chiama a ripensare l’esistenza: salute, educazione, lavoro. E ancora di più chiama in ogni stagione, da ragazzi e anche da anziani. Il punto è quello sollevato da Lorenzo Chiarinelli: «Mio Dio, se tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?».

La chiesa è un invito… a nozze, cioè a riscoprire che il legame rappresenta la nostra vocazione. Il pendolo della storia oscilla: negli anni ’60 abbiamo pigiato l’acceleratore sull’individuo. Ora sotto pandemia siamo tentati di ritrovare il ‘noi’, cui sacrificare anche le libertà individuali. Occorre non dimenticare che l’ombelico è il tatuaggio che afferma la nostra origine e la nostra dipendenza da altro. Se dimentichiamo questa verità la Chiesa rischia di essere qualcosa e non qualcuno, pratiche da sbrigare e non relazioni da coltivare, numeri da raggiungere e non la pecorella smarrita da ritrovare e portare sulle spalle.

E i servi? Sono quelli come te, caro Marcello, che sono inviati ad andare «ai crocicchi delle strade». “Ai crocicchi” per toccare la realtà e non starsene a debita distanza. Ciò vuol dire muoversi e non attendere, inventare e non deprecare, sporcarsi le mani e non immunizzarsi dal contatto con gli altri. Ce la farai caro Marcello, se sulle tue labbra fiorirà la parola di Paolo: “Tutto posso in colui che mi dà forza”.