Omelia in occasione della Festa di san Giuseppe da Leonessa

XXIV domenica del tempo ordinario (Sir 27, 30-28, 7, NV 27,33-28, 9; Rm 14, 7-9; Mt 18, 21-35)
13-09-2020

«Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore?». Il ragionamento del saggio Ben Sira (uno scriba del II secolo a.C.) non fa una piega e mostra che già nel Primo Testamento il rancore e l’ira sono peccati che distruggono la coesistenza tra gli uomini. Non è vero che solo con Gesù si farebbe strada il perdono. Semmai Gesù radicalizza la prova: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette». Cioè, sempre e in ogni caso. Ma perché a noi risulta così difficile perdonare al punto che coltiviamo per anni la vendetta, da servire magari fredda?

Perché ci sembra contrario alla giustizia; perché lo confondiamo con la riconciliazione; perché lo facciamo coincidere con la perdita della memoria. In realtà, perdonare non è il contrario della giustizia. Questa è esteriore e quello è interiore. Per questo è possibile ottenere giustizia senza perdono, e perdono senza giustizia. Il perdono, poi, non è la riconciliazione, cioè non implica necessariamente l’incontro con l’offensore che può esserci o non esserci. Ancora, il perdono non coincide con la perdita della memoria. Può convivere il perdono, cioè, con l’impossibilità di dimenticare che è un fatto involontario e che non si può rimuovere.

In che consiste, allora, il perdono se non è la giustizia, né la riconciliazione, né la perdita della memoria?

Il Maestro si serve di una parabola che mette in scena un tale che ha un grosso debito che gli viene condonato e subito dopo si rivela gretto quando a sua volta deve perdonare un’inezia al suo fratello. E trova il suo acme nella domanda addolorata del re: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». Qui è il punto. Perdonare non è uno sforzo di volontà, ma è arrendersi ad una evidenza: ciascuno ha da farsi perdonare qualcosa. E così come spera per sé in un’altra possibilità, così all’altro deve concedere la stessa opportunità. Nella vita matrimoniale verrebbe a volte da pensare che senza concedersi la libertà di sbagliare e di essere perdonati è fatale la rottura. Solo Dio ci sottrae alla deriva di una vendetta che moltiplica l’ingiustizia e la violenza. E fa crescere il coraggio e la libertà. Il perdono è tutt’altro che mollezza e si trasforma in resistenza secondo il lascito del Figlio sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Il perdono non è un atto obbligatorio e neanche solo reattivo come la vendetta, ma un atto libero che appartiene all’orizzonte dell’amore e che restituisce gioia, pace, serenità. Da questa magnanimità soltanto può nascere qualcosa di nuovo e di creativo. Il resto è la cronaca spietata di ieri e di oggi.