«Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto». Gesù è appena nato, ma deve già scappare. I “racconti dell’infanzia”, peraltro, più che una cronaca “delle origini” del Maestro, in senso anagrafico, sono una chiara allusione al suo destino e alla sua missione. Si tratta di testi ad alta densità teologica che solo una successiva ignoranza delle Scritture ha ridotto a puerili storie fantastiche. L’insistenza sulla ‘famiglia’ ha come scopo di riscoprire la storia di Israele, della quale Gesù è chiamato a ripercorrere le tracce: con la fuga in Egitto, appunto, e il successivo rientro prima in Giudea e, finalmente, a Nazareth. Capire il Maestro è possibile solo se risaliamo alle sue sorgenti che sono quelle dell’ebraismo e non possono essere recise con troppa disinvoltura, come è capitato con un contestato articolo di Dacia Maraini.
In filigrana, nelle vicende che accompagnano i primi passi di Gesù è dato di cogliere, dunque, la genesi del popolo di Do. Credere in Gesù significa continuare a stare nella fede dei padri, significa sentirsi parte di un popolo eletto e, al tempo stesso, sballottato qua e là. Tutt’altro che il rimando ad una idealizzata famiglia ‘del mulino bianco’, qui si tratta di ritrovare il rispetto del proprio padre e della propria madre che è un comando di Dio, fuori del quale non c’è futuro. È quanto si ricava – sia pure con un linguaggio datato culturalmente – nel frammento della lettera di Paolo ai cristiani di Colossi, laddove si afferma che le mogli siano ‘sottomesse’ ai mariti, i mariti ‘amino’ le mogli, i figli ‘obbediscano’ ai genitori, i padri non ‘esasperino’ i figli. Il filo rosso di questa convivenza è la qualità dell’ascolto reciproco che è il primo comandamento del pio israelita. Come si ricava dalle sagge parole del Siracide: «Il Signore ha glorificato il padre al di sopra dei figli e ha stabilito il diritto della madre sulla prole». È venuta meno una certa cultura patriarcale ed è un bene. Ciò che non deve venir meno è il senso di essere inseriti in una storia più grande, di cui siamo parte e dalla quale non possiamo estraniarci. Quel che tiene in piedi la famiglia, al di là delle sue varianti storiche, è la sua capacità di essere un legame dei generi e delle generazioni. Così la vita si trasmette e genera vita.
Il “sogno” di Giuseppe è il sogno del cuore umano che desidera inscrivere il proprio figlio dentro una storia di salvezza, cioè nel fatto che la vita sia una promessa di Dio. Dobbiamo riconoscere che a fronte di tanti cambiamenti anche del modello familiare, il suolo umano si è impoverito, si è svuotato del suo humus di relazioni, legami, responsabilità, è divenuto friabile, inconsistente. Su questo terreno l’uomo stesso diventa ‘di sabbia’. Una figura inafferrabile e impastata di contraddizioni, ma con un tratto distintivo: la sensazione di una stanchezza in cerca di riconoscimento.