Omelia in apertura delle 24 ore per il Signore

Venerdì della terza settimana di Quaresima (Os 14, 2-10; Sal 81; Mc12,28b-34)
29-03-2019

«Torna, Israele, al Signore, tuo Dio». Il termine shùv, ripetuto per ben due volte, vuol dire ‘tornare’ e descrive la conversione. Nelle parole di Osea, convertirsi significa convincersi che ciò che conta non sono le alleanze politiche, né le proprie forze, né gli idoli. La verità è che senza Dio siamo orfani. E la nostra società è stata definita ormai ‘senza padri’. A dirla tutta, oggi si sperimenta sia la difficoltà a essere padri, cioè quella di un rapporto giusto e non falsato con il figlio non più piccolo, sia la difficoltà del figlio a dire “padre”. Del resto è questo il nodo della celebre parabola dei due figli che ascolteremo domenica prossima. nessuno dei due ha capito chi era veramente il padre, né il minore uscito di casa, né il maggiore rimasto in casa.

Il nome di “padre” beninteso non è da interpretare semplicemente in senso psicologico, ma ha una rilevanza speciale nella rivelazione cristiana perché definisce chi è Dio. Ci sarebbero stati tantissimi altri modi per definirLo, eppure Gesù è chiaro: «Quando pregate dite ”Padre”» (Lc 11,2). Il padre della parabola non è il padre della legge, ma della sua sospensione, ovvero dell’esistenza di un’altra legge – la legge dell’amore – che interrompe la legge inesorabile del destino, rendendo possibile un nuovo cominciamento. Le mani del padre che abbracciano e circondano il figlio che torna sono mani che non impugnano bastoni o codici. Sono le mani aperte del perdono: il padre si rivela madre nell’atto del perdono perché rinuncia all’esercizio della legge in nome di un’altra legge che è quella dell’amore per il nome proprio del figlio. L’amore materno è quello che rende le cure particolari e non anonime. Dio è padre e madre. Tornare a Lui significa incontrare chi sottrae la vita alla sua inermità, all’esperienza dell’assoluto abbandono.

Allora comprendiamo ciò che conta davvero, seguendo la domanda posta dallo scriba al Maestro nel brano evangelico di oggi. Conta ‘tornare’ ad amare come Dio che ci insegna ad amare il prossimo come se stessi. Ciò che viene vissuto come separato o peggio contrapposto ritrova qui la sua unità perché non si dà mai l’uno senza l’altro. Per questo i più grandi contemplativi sono anche i più attivi tra i credenti e viceversa. Starsene in adorazione davanti al mistero eucaristico significa tornare alla sorgente dell’amore di Dio che rende possibile l’esperienza dell’amore umano, ben oltre le possibilità psicologiche ed esistenziali di ciascuno. L’amore di Dio libera lo sguardo dell’uomo, offuscato dall’amore di sé e lo rende capace di riconoscere in modo chiaro la realtà, il prossimo, il mondo. Così l’Eucaristia che è la trasformazione che Gesù opera dell’odio subito in amore finisce per trasformare anche il mondo.