Omelia della XXXIII domenica per annum (B)

Dn 12,1-3; Sal 16; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32
18-11-2018

«Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna». Le parole del profeta Daniele vengono vergate in un periodo di crisi, durante l’occupazione di Israele da parte del tiranno Antioco IV Epifane. Ma si riferiscono a fatti avvenuti 300 anni prima, durante l’esilio in Babilonia, quando si tratta di decidersi se rimanere fedeli o no alla proprie convinzioni. Il genere utilizzato è quello apocalittico che a differenza di quello che accade nella cinematografia non descrive le catastrofi di oggi o quelle che ci aspettano, ma intende risvegliare dal letargo e inculcare la speranza. Come? Guardando le cose dalla meta, cioè dalla fine e non dall’inizio soltanto. A noi sfugge abitualmente nel frastuono quotidiano il mistero delle cose, il principio e la fine. Per esempio, avete mai pensato che l’origine della vita rimonta a quattro miliardi di anni fa e quella dell’homo sapiens sapiens soltanto a 300.000 anni fa, quando nasce l’agricoltura? Daniele legge la storia del suo tempo sulla sfondo del tempo finale e intravvede la risurrezione dei morti e il trionfo della vita dei giusti. Non si tratta della speranza che domani le cose andranno bene. No, questo sarebbe un narcotico per addormentare le coscienze. La speranza nasce dal fatto che non tutto si esaurisce nel visibile e che l’istinto di morte non è l’ultima parola. Senza dire che si diventa anche ironici rispetto ai Moloch che si rivelano giganti dai piedi d’argilla.

«Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina». Anche Gesù nel testo di Marco si pone nella stessa linea dell’orizzonte. Pur in mezzo ad uno scenario devastante, che è rievocato con immagini apocalittiche («il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte»), il Maestro introduce un’immagine di segno contrario: il fico che germoglia e porta frutti. Che dice due cose: l’ultima parola non è la fine di tutto, ma la vita che riprende timidamente a sbocciare in piccolissime realtà. E poi il fatto che seppure si tratta di un segno trascurabile, i credenti sono chiamati a decifrare in esso l’anticipo di quello che ci attende in positivo.

«Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». E’ questa certezza che va accolta. Che cosa possiamo sperare? A sentire alcuni oggi sembra che non ci sia più niente di buono da sperare: la crisi economica, il tracollo del mondo naturale, le guerre e le violenze. Eppure credere ci assicura che alla fine Dio metterà in ordine le cose e per questo la responsabilità di chi lavora, si impegna, si dà da fare, non è mai inutile. Ciò che dà serenità ed energia è questa certezza del cuore.