Da quando siamo in emergenza, la metafora più ricorrente che siamo in guerra. Niente da dire sull’efficacia dell’immagine che evoca morti, e purtroppo ci sono ogni giorno, e uno stravolgimento della vita quotidiana. Ma il paragone regge fino a un certo punto: più che a una guerra, questi giorni malinconici assomigliano a un limbo, a un tempo sospeso. Con la pandemia in atto, in realtà, non accade nulla fuori noi: non c’è spargimento di sangue, né scontro fisico; tutto si svolge al nostro interno, nel silenzio di tanta solitudine, dentro un’atmosfera rarefatta, priva di diversivi, e si fa perfino fatica a verbalizzare e condividere il magone segreto di ciascuno. Siamo apparentemente tutti ammucchiati in trincea, ma in realtà ciascuno è chiuso il proprio io e pensa e prega.
Ma se non è una guerra, che cos’è il tempo sospeso? È come quando per sbaglio o per necessità qualcuno, parlando col telefonino, ti mette in pausa. Che fare? Quello che sbuffando facciamo tutti quando ci accade di essere messi in pausa dal nostro improvviso interlocutore: restiamo in attesa, non divaghiamo e soprattutto non disperiamo. Queste tre cose, nelle prossime settimane ancora le dovremo ancora coltivare: restare in attesa significa mantenere questa disponibilità all’ascolto dell’altro senza interrompere la conversazione per irritazione o per noia; e poi non divagare, che significa approfittare della pausa per cercare di cogliere meglio il filo dei nostri pensieri, per chiarire a noi stessi per prima cosa vogliamo dire all’altro; infine non disperare, cioè sapere che questa sospensione è per definizione provvisoria e la conversazione tornerà ad essere fluida. Chiediamo al Signore di non farci sentire in guerra, che è una cosa ancora più terrificante, e facciamo sì che questo tempo sospeso si auto sospenda.