“Alla fine il nulla?”. Tutt’altro. E abbiamo gettato appena uno sguardo sull’aldilà. Ben consapevoli che la resurrezione dai morti costituisce il vero “scandalo” della fede cristiana. Non a caso l’apostolo Paolo all’Aeropago di Atene viene letteralmente sbeffeggiato (cfr. At 17,32-33) non appena accenna al fatto che Dio ha dato di Cristo una prova sicura col “risuscitarlo dai morti”. Gli ateniesi replicano svelti: “Ti sentiremo su questo un’altra volta”. Per i greci, infatti, l’aldilà non esiste. Punto. Per questo l’uomo è chiamato semplicemente ‘mortale’.
La pandemia ci ha costretti, nostro malgrado, a guardare in faccia alla morte. Così è accaduto che la nostra società post-mortale – molto lontana dalla sensibilità della cultura greca, cioè una società insofferente ai limiti – in queste ultime settimane abbia scoperto improvvisamente di essere segnata dalla fragilità. Quella che è una tragica circostanza può trasformarsi in una risorsa importante perché proprio nel porre un limite alla vita, la morte le dà forma e possibilità di senso. Solo ciò che muore è vivo, mentre ciò che non muore, neppure vive. La certezza della morte (incerta omnia, sola mors certa, nelle parole di sant’Agostino) è da sempre alla base dell’esperienza umana ed è ciò che rende umani, cioè avvertiti della fine e, dunque, del fine della nostra esistenza. Gesù è troppo umano perché non censura nulla della vita, compresa la morte, ma la croce si trasforma da supplizio infamante in albero della vita, cioè nella possibilità di un nuovo inizio.
Solo l’incontro con Gesù Cristo è in grado di donare la liberante speranza di non morire. Come nella poesia che segue di Enzo Fabiani che aveva visto gli eccidi perpetrati contro i partigiani: ”Restami accanto/quando il cuore/domanderà confidando/ se nell’attimo bianco/della fine del pianto/tu gli sarai fratello/ se il manto/sereno del tuo nome, l’avvolgerà/ nell’ultimo tremore/del suo inverno. Guidami nel profondo/ ché a dir l’ultima sillaba/non sia Satana/ e non mi sfilacci la mente/ non mi costringa/ a rimpiangere/il sole polveroso della vita (E. Fabiani, L’ordinotte, Milano, 1978, 67).