L’epidemia in corso ci ha resi tutti digitali, casomai fossimo rimasti romanticamente cartacei o radiotelevisivi. Non penso tanto ai ragazzi e ai giovani, ma agli adulti e agli anziani che – grazie alla Rete – vivono la distanza fisica senza perdere la vicinanza emotiva. Con un telefonino si può parlare, dialogare, relazionarsi ogni momento, senza alcuna limitazione. L’altra sera al termine del rosario ho ricevuto un Whatsapp dal Guatemala che ringraziava per la preghiera insieme. Insomma, niente male, dopo che per anni il digitale era visto come un intralcio alla relazione “faccia a faccia” e all’autenticità. Ciò non toglie che, trascorsa la quarantena, sarà più facile apprezzare la ricchezza e la bellezza dell’incontro diretto, di cui sentiamo tutti nostalgia.
Peraltro, ogni cosa ha il suo risvolto problematico. E quando si parla della Rete oggi si deve fare i conti necessariamente con le cosiddette fake news. Cioè con le bufale, le castronerie, le falsità che corrono alla velocità della luce e tanto più sono grossolane tanto più diventano virali. Oggi – dato il clima di ansia che viviamo – è facile colpire l’immaginario collettivo con farmaci miracolosi, ipotesi complottiste, scenari apocalittici. Per questo è importante fare spazio alla verità delle cose, senza edulcorare ma anche senza drammatizzare. Come diceva papa Francesco qualche tempo fa: “Per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme” (Messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, 2020).
Penso che dopo l’epidemia anche la comunicazione dovrà cambiare: meno show e più realtà, meno fiction e più vita. Forse già da adesso possiamo iniziare a postare cose che invece di amplificare il mondo del sogno ci facciano toccare coi piedi per terra. Ora, infatti, che siamo nudi è più facile capire di che cosa abbiamo veramente bisogno di dirci e di darci.